Il cambiamento è sempre frutto di accadimenti personali, stati d'animo ed eventi che ci spingono, in qualche modo, a modificare noi stessi e quello che facciamo. Manuel Agnelli e i suoi Afterhours negli ultimi tempi di questi avvenimenti ne hanno affrontati diversi, sia dal punto di vista personale, con la paternità di Manuel, sia da quello artistico con il successo internazionale della versione in inglese di "Ballate per piccole iene" e il tour conseguente, i cambi di formazione (con l'ingresso dei fiati di Enrico Gabrielli), il passaggio al management Casasonica e la firma con la major Universal.
Investito da questo turbinare di fatti e di emozioni, è logico che quest'ottavo album di studio risulti alquanto instabile, dibattuto tra ricerche di nuovi orizzonti e mantenimento di una stabilità coerente con il proprio ego musicale.
"I milanesi ammazzano il sabato" vive così di diverse personalità. Se da una parte gli Afterhours rimangono legati alla loro natura primordiale, in special modo al sound di "Hai paura del buio?" ("È solo febbre"), arricchendo alcuni pezzi di riff e potenze stoner da Queens Of The Stone Age ("Neppure carne da cannone per Dio", "Pochi istanti nella lavatrice", "Tutti gli uomini del Presidente"), da un altro lato esiste il desiderio di rivoluzione silenziosa, di svolta radicale verso toni più quieti e rilassati, allacciati a un suono più melodico/popolare.
È qui che l'album mostra il proprio punto debole - nonostante alcuni arrangiamenti complessi e forbiti, tra fiati, archi o piano, canzoni come "Riprendere Berlino" o "Tema: la mia città" risultano poco convincenti, prive di quel piglio e quel nerbo che hanno da sempre contraddistinto il lavoro del gruppo di Agnelli.
Quando poi il ritmo rallenta ulteriormente le cose non migliorano; mentre la subdola "Tarantella all'inazione", con la sua ritmica, riesce a distinguersi abbastanza positivamente, la lenta ballata folk Lanegan-style che dà il titolo all'album è insipida, e "Dove si va da qui" prima annoia tra piano e drum machine e poi irrita con un pezzo in falsetto.
In questa voglia di tenerezza hanno un ruolo da protagonista le vicende sentimental-familiari di Agnelli, che fanno capolino un po' dappertutto, specie nella finale "Orchi e streghe sono soli", fiaba tenera dedicata alla figlia, pezzi di un (ri)trovato neo-romanticismo che però sul disco non pare proprio funzionare.
In conclusione, "I milanesi ammazzano il sabato" coglie Agnelli in un momento particolare della propria vita privata e il gruppo in un delicato passaggio della propria vita artistica, arrivato a un punto in cui si sente al massimo la pressione di critica e pubblico e ci si vuole svincolare dai propri cliché per non fossilizzarsi.
Ascoltando questo disco liberi da sudditanze e senza essere abbagliati dalla ricchezza degli arrangiamenti, ci si accorge così che questo è un lavoro irrisolto, che l'eccesso di zelo nella costruzione di certe strutture sonore ha partorito in realtà pezzi semplici e poco incisivi e che questa smania di cambiare non è ancora stata messa a fuoco.
Un album che pare dunque transitorio, con episodi riusciti e altri che sono embrioni di un mutamento in divenire che per ora comunque, soprattutto rispetto a quanto nelle corde degli Afterhours, non sembra per nulla accattivante.
10/05/2008