Il “Tito Andronico” è con tutta probabilità (wikipedia alla mano) la prima tragedia scritta da un ancor giovane Shakespeare, una delle più truculente, gratuitamente sanguinarie e fratricide composizioni drammaturgiche (come da tradizione greca) del Bardo, il punto di vista shakespereano sul cuore di tenebra umano o, se preferite, la progenitrice letteraria di tutte le demenziali macellerie del più sanguinolento (e lucrativo) cinema horror-spazzatura americano, tanto che l’autorevole critico letterario statunitense Harold Bloom vide in Mel Brooks l’unico regista che potesse cavarne un qualche tipo di adattamento cinematografico minimamente plausibile. In una parola: un capolavoro, checché ne dicano i puristi. Questi sono i chiari presupposti per i Titus Andronicus, band di Glenn Rock, New Jersey, attiva dal 2005 ma giunta al battesimo dell’esordio discografico soltanto nel 2008, con una album, “The Airing Of Grievances”, che finalmente ha reperito una distribuzione su scala mondiale.
Gruppo logorroicamente verboso, giovane e arrabbiato, stonato e contorto, i Titus Andronicus gravitano attorno ai turbamenti del giovane e ipersensibile Patrick Stickels, esacerbato urlatore da marciapiede con precise manie autodistruttive e solide cognizioni filosofiche-letterarie.
I riferimenti sonori del combo spaziano dai Black Lips ai Replacements, passando per Pogues, Husker Du, Guided By Voices e primissimi Television Personalities. L’attitudine è punk, ma il suono è scassato e caracollante come da manuale del perfetto gruppo garage di una qualsivoglia cantina psicotica americana, il tutto arricchito talvolta da spunti di carattere folk e imprevedibili aperture (quasi) sinfoniche in cui ripidissimi muri di detriti sonori calcinati uno sopra l’altro (e la mente va al primo catalogo Creation) si sventagliano nell’aria riempiendo il cuore di stupore e impeto selvaggio, come inni sguaiati da maggio barricadero.
Similmente ai vicini di casa Hold Steady, i Titus Andronicus sperimentano il già (stra)sentito, infarcendolo però di una passione e di un calore, a tratti di una “verità”, del tutto personali, facendo leva su un immaginario provinciale/ proletario, capace ancora di accendere la fiamma di un’epica degli sconfitti che non lascia indifferenti. Delle nove canzoni, a emergere già da un primo ascolto diffidente, si segnalano “Joseth Of Nazareth’s Blues”, “No Future” (in due movimenti) , “Titus Andronicus” e “My Time Outside The Womb” con quel cantato sconnesso e sbraitante, sempre sul punto di strozzarsi o, ancor peggio, sgozzarsi per cadere poi a peso morto nelle acque torbide e inquiete di un suono approssimativo e scricchiolante.
Le loro apparizioni dal vivo, ai limiti della rissa ad alta gradazione alcoolica, hanno già generato un piccolo culto internazionale nella comunità degli appassionati telematici e la critica più avveduta non è restata certo a guardare. Proprio per tutte queste ragioni, i Titus Andronicus potrebbero presto rivelarsi come una delle più gradite sorprese musicali di questo 2009.
Shakespeare garantisce per loro.
28/01/2009