Allora questo mistero riguarda probabilmente la creazione di una materia enigmatica, inafferrabile, che sembri musica pur non essendolo appieno - in realtà è più un parlarsi addosso - e che, soprattutto, rievochi ricordi, memorie, senza per questo cadere nella mimesi o peggio nell’imitazione. E’ una pantomima molto più sottile, quella inscenata da Faravelli, una tragicommedia dell’assurdo dove il protagonista è il suono di un’elettronica giunta al punto di non ritorno, dove ogni possibile limite è già stato oltrepassato in andata e ritorno.
L’ambient da buco nero della traccia numero 3 esprime pienamente questo concetto. Le tenui variazioni melodiche illuminano in discontinuità un vuoto subsonico denso e minaccioso (un po’ come nell’ultimo Kevin Drumm), e paiono altresì riesumare memorie di un mondo passato seppur presente, testimonianze appena udibili della musica dei nostri tempi, o forse di un suo simulacro. Così proprio il primo pezzo, così melodicamente definito, e persino gradevole nel suo snodarsi minimal-concreto, ci illude della presenza nell’entropia di un oggetto sonoro relazionabile alle sue metodologie generatrici.
Ma è solo una tenue fiammella nel buio, poiché il rumore granuloso e alienante della quarta e della quinta traccia si rende inafferrabile da qualsiasi catalogazione e persino definizione. Microsuoni? Basinski? Elettroacustica? Supersilent? Può darsi, ma non solo.
Allora quest’ elettronica straniante e oscura si snoda nervosamente in un limbo immaginario dove ogni pattern è un frattale che nasconde al suo interno la sua stessa matrice, ovvero la matrice di mille altri suoni. Perché come (pochi) altri musicisti in ambito elettronico e elettroacustico, Faravelli ha capito che nell’anno domini 2009, e prima di una qualche inverosimile rivoluzione estetica, la musica (soprattutto certa musica) non può far altro che riferire a se stessa di se stessa, ossia riflettere sulla sua morte come entità dotata di senso.
(09/06/2009)