E va bene, inutile nasconderlo, ho un debole per la musica di questi ragazzoni texani, e lo si può agilmente desumere dalla lettura di altri miei articoli pubblicati da queste parti.
Li ho difesi a spada tratta anche quando diedero alle stampe lavori stroncati unanimemente da critica e addirittura da parte dei fan.
Dopo i mezzi passi falsi (secondo costoro) di “World’s Apart” e “So Divided”, che costrinsero un po’ tutti a rivedere le aspettative sulla band, i Trail Of Dead (ormai chiamiamoli con la forma contratta della loro ragione sociale completa) ritornano con un disco che pare proprio rimetterli in carreggiata.
Togliamoci subito da ogni imbarazzo: i punti di debolezza dei Trail Of Dead ci sono tutti anche stavolta, a partire da certe lungaggini di troppo e da alcune pause esasperanti che sovente rallentano a dismisura la fluidità delle architetture sonore.
E certa magniloquenza è lungi dall’essere messa da parte, cosa che purtroppo emerge sin dall’iniziale “Giants Causeway”, ricca di barocchismi strumentali che nemmeno dinosauri del calibro di Yes e Gentle Giant oggi si sognerebbero di proporre.
Se i Trail Of Dead riuscissero a lavorare per sottrazione, se solo avessero la voglia di asciugare i loro brani riducendo il superfluo, probabilmente sarebbero in grado di sfornare un capolavoro dopo l’altro. E infatti proprio quando lavorano di cesello ottengono i risultati migliori, e stranamente questa volta accade con i brani più tranquilli del lotto (il caso scuola è “Luna Park”), come dire che non sempre urlando e alzando i volumi si ottiene il maggior numero di punti.
Ma le riserve finiscono qua, e le abbiamo volute elencare integralmente.
Per il resto, la band si conferma come una delle realtà più musicalmente ricche del primo decennio del nuovo millennio, forte di una perizia tecnica e di un flusso magmatico di idee difficile da contenere in forme che canonicamente si suole definire con il sostantivo “canzone”.
Resta quell’approccio a metà strada fra sonicità (a volte anche di una certa violenza) e reminescenze prog, che anche in passato ha fatto la fortuna dei Trail Of Dead e che li rende tuttora unici nel panorama musicale contemporaneo.
A conti fatti le tracce più belle paiono quelle già note (“Bells Of Creation” e “Inland Sea”) per essere state edite sull’Ep “Festival Thyme” pubblicato lo scorso dicembre come gustosa anticipazione dell’album, ma l’intero lavoro si attesta su livelli decisamente apprezzabili.
"The Century Of Self", pur senza raggiungere le vette creative di “Source Tags And Codes” (anno di grazia 2002, capace di prendersi addirittura un 10 pieno su Pitchfork!), e forse nemmeno quelle del precedente “Madonna” (2001), è in grado di resuscitare agli occhi di tutti i fantasmi di Conrad Keely, Jason Reece e soci.
Impossibile prescindere da loro per disegnare il cammino dell’indie-rock degli ultimi dieci anni.
Anche se il disco meriterebbe almeno mezzo voto in più, stavolta decido di tenermi basso con il rating, tanto per non fare la figura del fan a oltranza.
06/05/2009