Nell’attuale, floridissima stagione del cantautorato al femminile, accanto a leve più o meno nuove quali le varie Marissa Nadler, Emily Jane White, Alela Diane e Jes Lenee, non è nuovo assistere alla (ri)scoperta o ai ritorni discografici di vere e proprie antesignane di tante delle artiste odierne, spesso disperse nella memoria collettiva o reduci da prolungati silenzi. Basti pensare a Sibylle Baier o al clamoroso ritorno sulle scene di Vashti Bunyan o, appunto, alla stessa Kath Bloom, che aveva interrotto la propria attività artistica nei primi anni 80, in seguito allo scioglimento del suo sodalizio con Loren Mazzacane Connors. Dopo un quarto di secolo, Kath Bloom è fuoriuscita dal suo prolungato silenzio pubblicando un nuovo album originale nel 2008, “Terror”, e la sua musica è stata nel contempo rispolverata nella ricca compilation-tributo dello scorso anno “Loving Takes This Course”, alla quale hanno partecipato tra gli altri Devendra Banhart, Bill Callahan, Meg Baird e Mark Kozelek. Proprio quest’ultimo va considerato il principale artefice della riscoperta della musa del Connecticut, della cui voce aspra e profonda si è letteralmente innamorato, tanto da realizzare una rilettura di “Finally” (compresa nell'omonimo Lp di cover pubblicato in solo vinile nel 2008) e, adesso, da mettere a disposizione la sua etichetta Caldo Verde per la realizzazione del secondo album della “seconda vita” della Bloom.
Fedele all’antico spirito, ma rinnovata nella maturità umana e artistica dalla sua esperienza di vita, nella sottilissima linea che fornisce il titolo all’album Kath Bloom cristallizza il confine tra speranza e disillusione, tra amore e distacco, tra silenzio ed espressione, in canzoni di disadorna compostezza, ma pervase da un’equilibrata schiettezza concettuale e formale, come solo da un’artista navigata ci si potrebbe attendere. Nasce così questa collezione di ballate fuori dal tempo, sospese appunto sull’esile crinale tracciato da testi nei quali l’artista non mostra remore nel mettersi a nudo, di ferire e ferirsi con l’affilata arma del ricordo e dell’introspezione (“when I see you coming my way/ I pretend I’m not at home/ see you turn around so slowly/ and I cry/ I’m all alone”). Un nichilismo che trae linfa dall’ugola caldissima della Bloom, smorzato nei momenti in cui l’acustica assume cadenze più vivaci. Disperazione e disincanto vibrano sulla stessa corda, quasi a rimarcare la necessità di sentirsi oltremodo tristi e al contempo afflitti dalle peripezie dell‘io. “Thin Thin Line” prosegue laddove Loren Connors aveva già inferto con la sua celebre slide segni indelebili. Il dado è tratto con onestà e parsimonia attraverso un intarsio atemporale di trovate pastorali. L’aver trascorso gran parte della vita esibendosi nei pub del Nord Est ha fatto sì che la dolce Kath consolidasse quella sua vicinanza alle tradizioni folcloristiche a stelle e strisce.
E così, è tutto un susseguirsi di briose novelle sospinte da banji, violini e armoniche in festa (“Suche A Tease“), amorevoli nenie (“Like This”), timide proiezioni gospel (“Back There”), melodie che inseguono gloria e rinascita (“Is This Called Living“). Ma è in ”Another Point Of View” che la suadente folksinger si smarca dalla banalità delle cose e da una bastante gradevolezza, innalzandosi con tutta la sua grazia e quel suo gracile lirismo, denso di tormento e inquietudine. Da contraltare, l’inno speranzoso posto in risalto nel motivetto centrale di “Lets Get Living” accende un focolare di stampo mitchelliano, con tanto di coretti in cerchio e presa di coscienza spirituale, prima che l’andatura romantica di “I Thinking Of Love” mostri un’elegante pienezza interiore, sancendo l’arrivo di una nuova stagione passionale.
Dischi come “Thin Thin Life” incarnano la rinascita, la ricchezza emotiva e l’immortalità artistica di certe poetesse del folklore americano. Sono semplicemente dei piccoli doni, da custodire con cura e doverosa gratitudine.
24/03/2010