Tutto è cominciato con un sms. Un messaggio con cui Joseph Arthur invitava Ben Harper a raggiungerlo sul palco del Troubadour di Los Angeles, dove Arthur aveva in programma un concerto. I due, amici sin dai primi anni Novanta, non avevano mai trovato l'occasione per collaborare insieme: ma quella sera è stato subito evidente che il momento giusto era finalmente arrivato.
Mancava ancora qualcosa, però, un ultimo tassello per completare il mosaico. E Harper si è ricordato di un ragazzo che aveva conosciuto facendo skate: Dhani Harrison, il figlio del grande George. Armato di ukulele, Dhani si è presentato puntuale in studio, chiedendo candidamente quali fossero le canzoni da imparare. Arthur, seduto in mezzo alla sala a sistemare i propri strumenti, gli ha sorriso: "Oh, non le abbiamo ancora scritte...".
Improvvisazione, istinto, condivisione: così sono nati i Fistful Of Mercy di Harper, Arthur & Harrison. Tre giorni trascorsi a suonare insieme tra le mura della Carriage House di Los Angeles, nove brani (di cui uno strumentale) scritti in un'aura di comunione artistica. "Abbiamo condiviso il processo di sognare insieme e queste canzoni sono la nostra conversazione", spiega Harper. "Mi ci sono voluti quarant'anni e tre giorni per mettere il mio ego alla porta ed essere solo una voce nel coro". All'inizio c'era solo un verso: "You love like I love". Una sorta di manifesto di affinità elettiva, diventato l'incipit di "As I Call You Down". Da lì in avanti, la musica ha cominciato a prendere forma con una naturalezza tale da sorprendere gli stessi protagonisti.
"Come diceva Lester Bangs, il rock 'n' roll è non avere la minima idea di quello che si sta facendo": Arthur sintetizza così lo spirito di spontaneità e abbandono dei Fistful Of Mercy. E subito gli fa eco Harper: "È una sensazione di innocenza che non provavo dai tempi di "Welcome To The Cruel World" e "Fight For Your Mind". Nonostante l'entusiasmo, però, gli esiti non sono altrettanto memorabili: la formula di ballate acustiche e armonie vocali che accomuna senza grosse sorprese tutti i brani dell'album chiama inevitabilmente in causa l'ingombrante modello di Crosby, Stills & Nash. Ma la scrittura soffre troppo spesso di incompiutezza e linearità, cedendo alla più classica "sindrome da supergruppo".
Il marchio di Ben Harper si trova impresso soprattutto nel vigore soul di "As I Call You Down", mentre Joseph Arthur conferisce il suo anelito spirituale a "Fistful Of Mercy", la canzone che (prendendo spunto del Sergio Leone di "Per un pugno di dollari") è diventata il nome di battesimo della band. A dare uno spessore pop alle iniziali registrazioni acustiche dei tre, Dhani Harrison ha chiamato un vecchio amico di famiglia, il batterista Jim Keltner ("Il Dalai Lama della batteria", come proclama senza mezzi termini Harper). Per il resto, i contributi esterni sono ridotti al minimo: solo il violino di Jessy Greene e il contrabbasso di Sheldon Gomberg (in "Fistful Of Mercy"). Tra melodie ad alto tasso sentimentale ("In Vain Or True", "Restore Me") e passaggi a vuoto ("Things Go 'Round"), a movimentare l'atmosfera ci pensa il blues pimpante e campagnolo di "Father's Son", tra battimani e funambolismi di chitarra targati Harper.
"Questo album è il suono di un'amicizia che si sviluppa", riflette Arthur. "È la documentazione di un gruppo di amici che diventano fratelli". Perché essere amici, come suggerisce "Fistful Of Mercy", significa mettere in comune i desideri più profondi del cuore: "Maybe it comes from where we are / Land of the thirsty / And the hungry". È di amici così che c'è bisogno per vivere, e il coro finale di "With Whom You Belong" suona come l'augurio rivolto a ciascuno di riuscire un giorno a trovarli. Basta un pugno di misericordia.
21/12/2010