Guidati dal carismatico cantante e compositore Jamie McDermott, gli Irrepressibles sono una bislacca e ipercolta orchestra britannica di ben dieci elementi, attiva già da diversi anni, che proprio in questi giorni, dopo numerose apparizioni nei teatri più suggestivi di mezza Europa (un secret gig a Roma nell'inverno scorso), approda all'album di debutto. La loro eccentrica miscela di musica orchestrale semiclassica, recitativi barocchi da operetta buffa, erudito cabaret canzonettistico scandito a suon di archi e pianoforti ottocenteschi, sporcato qua e là da ambiziose tentazioni di music-hall in costume, ha già raccolto significativi apprezzamenti critici grazie a sfarzosissimi allestimenti scenici all'insegna della più fervida compenetrazione di arte visuale, danza e sgambettante pantomima.
L'album, inevitabilmente, riesce a catturare solo in parte il caleidoscopio esplosivamente felliniano che caratterizza il circo Barnum delle esibizioni dal vivo, focalizzandosi per lo più su un'elegante collezione di arie da balletto e arditi madrigali dal piglio svampito e civettuolo nei quali volteggia, con stile raffinato e cantilenante, il narcisismo controtenorile di McDermott. A metà strada tra un Antony prestato al Notre Dame di Cocciante e un Neil Hannon che riadatta alle esigenze dell'oggi il canzoniere sepolto della dimenticata (ahinoi!) Bonzo Dog Band per un remake vittoriano della Tosca, questo pifferaio magico riesce comunque a emozionare, accompagnando l'ascoltatore nel teatro fluttuante del proprio io più intimo, ora frenetico e saettante come un'orgia di marionette impazzite ("Splish! Spalsh! Sploo"), ora più placido e romanticamente incurvato sulla pagina bianca, densa di ombre fuggevoli, del proprio vuoto invincibile (la bellissima "The Tide", tra Marc Almond e Rufus Wainwright).
Il limite di un lavoro del genere, però, è insito nella sua stessa ragion d'essere: "Mirror Mirrror", negli intenti dei suoi artefici, dovrebbe avere l'ardire di trasmettere all'ascoltatore la magia e il coinvolgimento di un concerto degli Irrepressibles, ma né le ricchissime orchestrazioni, neanche i continui cambi vocali di McDermott - che pur si dimostra più eclettico dello stesso Antony, riuscendo a passare con soavità dal falsetto al cantato quasi tenorile - né, tantomeno, la francamente orrenda copertina dell'album regalano al fruitore l'opportunità di immergersi in profondità nell'incredibile atmosfera a metà strada tra il cabaret weimariano e le danze belle epoque che sono le apparizioni live della band.
E, probabilmente, non poteva essere altrimenti. Sceverate dalle piume di struzzo, dai lustrini, dalle maschere da commedia dell'arte, da tutto quell'armamentario scenico che non manca mai di accompagnare le esibizioni degli Irrepressibles, rimangono solo le canzoni che, per quanto in alcuni casi coinvolgenti e cariche di pathos (il cabaret queer dell'introduttiva "My Friend Joe", l'enfatica melanconia di "Nuclear Skies"), non sempre si dimostrano all'altezza del compito loro assegnato risultando, a volte, una scintillante cornice priva di quadro ("My Witness", "In Your Eyes", "Anvil"). Abilmente, in ogni caso, a congedarsi dalla platea arrivano la già citata "The Tide" e "In This Shirt", quasi nascosta dal suono dell'organo, stranamente misurata e intima, e proprio per questo ancor più compromettente e personale di ogni altro brano dell'album.
Così la giostra di "Mirror Mirror", sempre in movimento tra gioia e disperazione, tra sfacciate passioni e riservati moti dell'animo, non conosce sosta alcuna e soffermarsi a soppesare ogni singolo brano risulta, alla lunga, pratica oziosa: con un rigoroso senso della non-misura, infarcito di panneggi e merletti poetici, seppur quasi soffocato da eccessi manieristi ricamati di egotismo abissale e debordante, questo insolito gruppo riesce tutto sommato a spremere un ideale lirico piuttosto originale, dotato di una sua vibrante intensità, per quanto a volte rischi di divenire pomposa e, senza l'adeguato supporto scenico, insopportabilmente prolissa.
08/02/2010