Per il ventottesimo album in studio di una carriera che va avanti ormai da quasi trentacinque anni, la banda di Mark E. Smith approda per la prima volta alla corte della Domino, scuderia indie per eccellenza. Mark E. Smith, a conti fatti unico membro effettivo e costante di un line-up instabile e intricatamente mutevole come poche altre (assestatasi ora, dopo innumerevoli avvicendamenti, non sempre indolori, in un quintetto comprendente tra l'altro anche l'attuale moglie del nostro, Elena Poulou Smith, alle tastiere e alle voci), tende nei fatti a identificarsi completamente con l'universo poetico e concettuale dei Fall, esemplare band-kibbutz sovversiva e militante che con il tempo è andata configurandosi sempre più come una sorta di appendice sanguinaria e rovinosamente cacofonica dell'ego distorto e farfugliante di Mr. Smith. Un suo ossessivo campo di battaglia mentale e, al tempo stesso, un'indispensabile forma di terapia d'urto al delirio attraverso il delirio. "The Fall c'est moi", insomma.
Bisogna dire che l'ultimo decennio è stato per Smith e soci un periodo di fortissimo rilancio sia artistico che mediatico, con il revival post-punk a battere sonoramente cassa un po' ovunque, attraverso una miriade di giovani gruppi che a destra e manca non hanno esitato a proclamare con orgoglio la propria diretta discendenza dai teoremi malati del maestro, senza poi trascurare la strettamente correlata messe di ristampe e pubblicazioni specialistiche sull'argomento, compresa la stessa, sconnessa, autobiografia di Smith e, soprattutto, l'insostituibile bibbia enciclopedica "Post-Punk" di Simon Reynolds, che proprio ai Fall e alla scena di Manchester dedica uno dei capitoli più belli dell'intero libro. E così, se fino a ieri John Peel rimaneva lo sponsor più strenuo e illustre (ma anche gente come Sonic Youth e Pavement non ha mai fatto troppo mistero circa la propria inguaribile passione), oggi Mark E. Smith, vero e proprio monumento vivente dell'epopea new wave britannica, si ritrova a essere invitato come ospite addirittura in un disco dei Gorillaz o a partecipare a progetti collaterali di un certo successo come Von Sudenfed (assieme ai Mouse On Mars).
"Your Future, Our Clutter" si congeda da un decennio caratterizzato da lavori nel complesso sempre molto buoni e chiude la partita con una manciata di composizioni altrettanto valide, che, nell'insieme, sembrano quasi approntare una sintesi sragionata dello spettro stilistico esplorato dalla band in anni e anni di irrequieta militanza (anche se poi, a ben vedere e sentire, ogni album dei Fall contiene dentro di sé il sistema e il significato dell'intera discografia di cui è parte, non avendo mai il gruppo smesso davvero di riscrivere e smantellare la stessa, persecutoria, non-canzone).
Il distonico spoken-world del leader maximo, come una salmodia ubriaca da muezzin paranoico, non cede mai, come da tradizione, alle lusinghe ammaliatrici del canto e anche nei nuovi pezzi si aggrappa, sgraziato e balbettante, alle strutture sonore edificate dal nuovo gruppo, a base di kraut-rock psichedelico ipnoticamente ripetitivo e sfuriate noise-garagiste rilucenti di estasi apocalittica e vaneggiamenti sci-fi scassati, tra Can e Captain Beefheart (e tutto ciò che ne deriva).
Pezzi cattivissimi e piuttosto rumorosi, nonché lunghi, come "Y.F.O.C. / Slippy Floor" (il brano migliore, assieme alla conclusiva e bellissima "Weather Report 2", molto velvettiana) o "Cowboy George", ai limiti del country-western (ma anche la fulminea "Hot Cake" non scherza mica...), testimoniano della più che ottima salute ispirativa della band, mentre nella notevole "Mexico Wax Solvent" il gruppo va quasi a riprendersi ciò che è suo, ovvero gran parte dell'immaginario punk-funk della Dfa (chiedete a James Murphy), prima di ripensarci e rimasticare tutto in un lungo racconto smangiucchiato da un astratto formicolio di manipolazioni e decostruzioni soniche, tipicamente falliano nel suo svolgimento (viene in mente il classico "New Face In Hell").
Alla fine, la band confeziona un altro elettrico audio-libro da consegnare al mito imperituro di se stessa, un piccolo incubo tascabile da trapiantarsi nel cervello e un fascio di cavi bagnati da strofinarsi con diligenza sul cuore. Ditemi voi se è poco. Grandi.
20/06/2010