O' Death

Outside

2011 (Ernest Jenning / City Sang)
alt-folk, gothic americana

Le canzoni folk non mentono. Non hanno paura della verità, nemmeno di fronte alla morte. Come diceva Bob Dylan, "la musica tradizionale contiene l'unica morte vera, valida, che oggi si possa tirare fuori da un giradischi". Devono averlo pensato anche Greg Jamie e i suoi amici quando, nel 2003, hanno deciso di battezzare la loro band con il titolo di un antico motivo folk: O'Death, come la conversazione con la morte in chiave bluegrass resa celebre da Ralph Stanley. Una semplice suggestione, forse. Almeno fino al giorno in cui la morte non ha bussato davvero alla loro porta. Nel 2009, al batterista David Rogers-Berry viene diagnosticato un tumore osseo: la lotta contro il male, fino alla conquista di un sofferto ritorno alla vita, trasfigura l'anima degli O'Death, rimodella la loro musica. Non più mimesi, ma realtà fatta di carne e sangue. E le ombre di "Outside" diventano l'alba di un nuovo inizio.

La febbrile lezione folk-punk dei dischi precedenti sbiadisce di fronte alle tinte seppia del terzo capitolo firmato O'Death: un affresco gotico in cui le reminiscenze appalachiane assumono un vigoroso dinamismo indie-folk. Radici piantate nel solido terreno della "old, weird America" e piena cittadinanza nella scena hipster della Grande Mela: in fondo, nulla di diverso rispetto agli ingredienti del folk revival.
Il sipario si apre sul senso di fatale consapevolezza di "Bugs": "I know that days don't come back, please believe in me", ammonisce Jamie con il timbro di un Neil Young dai panni hillbilly. "And then my eyes just turn red, far as the light can see". Ma subito il banjo dà l'abbrivio ad una cavalcata incalzante, che insinua un'irrequieta tensione nell'atmosfera. Merito anche del video girato per il brano dagli stessi componenti della band, in cui creature da incubo si aggirano per i boschi raccogliendo enigmatiche teste di manichini decapitati.

Una marcia da chain gang guida l'incedere di "Ghost Head", mentre il profilo di Nick Cave si staglia tra i cori spettrali della solenne murder ballad "Alamar". È l'approccio stesso degli O'Death alla scrittura a subire una profonda metamorfosi in "Outside": invece di porre al centro l'irruenza della resa dei brani sul palco, l'attenzione si sposta sulle rifiniture dei contorni, con l'ausilio anche in questa occasione della produzione di Billy Pavone (già al fianco di Asobi Seksu e Calla).
"Look At The Sun" si leva cullante come una brezza, ma nubi cariche di tempesta incombono sull'orizzonte. Ci sono le movenze gitane dei Beirut nella fiaba sinistra di "Black Dress", ci sono gli spigoli taglienti dei 16 Horsepower nell'enfasi di "Howling Through". Ma il cuore nero di "Outside" si svela nel pathos di "Back Of The Garden", tra battimani, impasti vocali, tessiture di banjo e orchestrazioni di fiati e archi.

L'autenticità dell'esperienza, lungo le tracce di "Outside", supera il ricorso agli stilemi di genere. "Queste canzoni parlano di solitudine, di allontanarsi dalla società", spiega Jamie. "Vivere l'istante, lasciarsi le cose alle spalle. E, ovviamente, indossare lunghi abiti neri". Abiti neri come le vesti con cui la morte si affaccia nella danza macabra di "Black Dress": sostenere il suo sguardo significa anzitutto ritrovare l'urgenza della vita, il bisogno che nulla vada sprecato. "I've been wastin' most my time living for the day", è la confessione di "Bugs". La densità dell'istante è racchiusa in questa coscienza: perché, come scriveva Flannery O'Connor, "ogni giorno è il giorno del giudizio".

Back Of The Garden

15/05/2011

Tracklist

  1. Bugs
  2. Ghost Head
  3. Alamar
  4. Black Dress
  5. Ourselves
  6. Look At The Sun
  7. Howling Through
  8. Don't Come Back
  9. Pushing Out
  10. Back Of The Garden
  11. The Lake Departed

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