Conosciuti
in Italia soprattutto in virtù della partecipazione del loro
bassista-violoncellista Alexandr Vatagin alle esibizioni dal vivo dei
port-royal, i viennesi Tupolev approdano al secondo album, affinando la loro
formula in bilico tra neclassicismo e segmentazioni che denotano uno spiccato
spirito "post-".
Nei quasi tre anni
che separano il debutto "Memory of Björn Bolssen" dal conciso (ventotto minuti)
seguito di "Towers Of Sparks", i quattro componenti della band si sono
cimentati in svariati altri progetti collaterali, tra i quali una citazione la
meritano quanto meno Slon e Protestant Work Ethic; tornati all'ovile della loro
ispirazione primigenia di orchestrina jazz-contemporanea, hanno rifuso nel
nuovo disco esperienze e sensibilità maturate nel corso degli anni e volte a un
deciso affrancamento da quei cliché ai quali rischia sempre di andare incontro
un quartetto composto da pianoforte, batteria, basso o violoncello ed
elettronica.
Non siamo,
difatti, né in territori di avanguardismo accademico, ma nemmeno di classica
contemporanea; piuttosto, in "Towers Of Sparks" i Tupolev mostrano di saper
dosare tecnica e immediatezza, romanticismo e tendenze decostruzioniste, in
otto composizioni astratte ma sufficientemente espressive, nelle quali morbide
note pianistiche si bilanciano con ritmiche jazzy e saturazioni
elettroniche si sposano con il movimento solenne degli archi di Vatagin.
Quasi inevitabile
pensare alle notturne partiture cameristiche rachelsiane e alle più nervose
linee dei 33.3; sullo sfondo, resta un classicismo alla Penguin Café Orchestra,
tuttavia frammentato da una batteria asciutta, le cui cadenze costituiscono il
principale elemento di raccordo con esperienze come quelle dei Karate e con
quell'estetica "post-" convogliata sul versante jazz da un continuo
avvicendamento di intarsi eleganti e notturni. Non è un caso che l'album sia
stato volutamente masterizzato a un volume basso, così da renderlo adatto ad
atmosfere soffuse e raccolte, nelle quali lasciarsi andare al flusso dei
ricordi senza tuttavia essere sopraffatti da emozioni troppo forti. Tutto è
sfumato e, in apparenza, asettico lungo gli otto brani di "Towers Of Sparks",
che cedono (positivamente) a un qualche coinvolgimento soltanto in presenza di
screziature elettroniche oppure laddove sono le armonizzazioni a prendere il
sopravvento.
Così, pianoforte e
crepitii incorniciano la fluidità armonica di "Towers Of Sparks 3", mentre il
violoncello di Vatagin sa farsi romantico, sposando la densa ambience di
"Towers Of Sparks 1", e dolente nell'intensa "Petroleum", fino al progressivo
diradamento di tempi nel quale sfocia la conclusiva "Juno".
La durata
contenuta del lavoro rappresenta un valido antidoto alla sua sostanziale
piattezza, determinata non tanto dalla ripetitività di soluzioni quanto
piuttosto dall'uniformità di atmosfere che peccano di carattere nella stessa
misura in cui ricercano una compassata raffinatezza. L'effetto complessivo è,
comunque, gradevole e, seppure difficilmente susciterà un grande
coinvolgimento, il disco si presta quanto meno a essere assaporato insieme a un
buon vino corposo, in una solitaria serata d'inverno nella quale lasciar viaggiare
lontano pensieri lucidamente annebbiati.
03/02/2011