Strumentista e oscuro autore di successi r&b fino alla trentina abbondante, scrive e suona fra gli altri anche per Randy Jackson (il futuro giudice "buono" di "American Idol") che ne riconosce il talento e lo raccomanda presso una major, la Capitol, per la quale Hunt incide due album nu-soul di buona fattura e di discreto successo ("Van Hunt", 2004 e "On The Jungle Floor", 2006). Si guadagna una certa nomea e vince anche un Grammy Award nel 2007 per la sua versione di "Family Affair" di Sly & The Family Stone al fianco di due popstar di primo piano come John Legend e Joss Stone. Poi decide di cambiare direzione, di cimentarsi con qualcosa di più ambizioso, forse troppo ambizioso per i piani della sua nuova etichetta (la Blue Note) che blocca il lavoro successivo (ironicamente intitolato "Popular") fino a tempo indeterminato.
A quel punto Hunt ne ha già fin sopra i capelli della grande industria e dei suoi compromessi, rescinde il contratto e prosegue come indipendente. Gli ci vogliono più di tre anni ma alla fine dà alla luce il suo disco più libero e personale, quello che ha fortemente voluto in tutti questi anni di carriera: "What Were You Hoping For?".
Nel suo ultimo lavoro, Hunt può finalmente sfogare tutto il suo amore per maestri come il già citato Sly, per il kitsch sublime e raffinato di Prince, per il funk-soul modernista degli anni 70, per la psichedelia e persino per certe contaminazioni post-punk e wave. La produzione gioca su un suono sporco e analogico, volutamente indie e in anti-retorica controtendenza rispetto alle patinate sovrastrutture di molta black d'autore contemporanea. Il risultato è un rock-soul sbilenco, eccentrico, eclettico a tratti quasi freak che ben si adatta alla voce sottile e quasi sempre schermata di Hunt, in un'interpretazione mai virtuosistica ma tutta giocata sugli scarti di tono e sulle suggestioni. Con testi inventivi e pungenti che ironizzano sulla crisi economica e sull'altalenante destino di un musicista ormai escluso (per scelta) dal giro che conta, ma deciso a salvaguardare la propria dignità artistica.
L'opener "North Hollywood", dedicata a splendori e miserie del suo vicinato, chiarisce bene il concetto con inciso nu-soul scentrato e frammentato da stop'n'go e da sgranati inserti chitarristici funk-rock. Ancora più spericolate l'irresistibile "Watching You Go Crazy" e l'immaginifica "A Time Machine Is My New Girlfriend" delineano un black-punk dai forti accenti psichedelici, roba obliqua fra Prince e i Bad Brains (più i secondi, in effetti).
Sempre all'inarrivabile genio di Minneapolis ammiccano il funk futurista e spaziale di "Designer Jeans" e il synth-soul ottantesco ed elegantemente arrangiato di "It's A Mysterious Hustle". E pure nel prosieguo si mantiene all'altezza, confermando la fantasia e la varietà di spunti di un autore che sembra aver trovato qui la sua dimensione ideale: l'arty e conturbante "Plum" con pennellate di tastiere e riverberi di chitarre su cascami ritmici nu-soul/hip-hop, l'affascinante soul atmosferico e confidenziale, quasi quiet storm, di un lento come "Moving Targets", le traiettorie rockeggianti, psichedeliche e sfuggenti di "Crosse Dresser" e della title track.
Che, comunque vada, non passi inosservato. Ecco, parafrasando il titolo, cosa c'è da augurare a questo disco.
(29/11/2011)