In mezzo, sul finire del 1986, ecco la leggendaria chiacchierata che corre sul filo con Ron Wood. Obiettivo? Entrare a far parte delle Pietre - sempre meno - Rotolanti, visto che Jagger sembrava averne le tasche piene e un Richards eufemisticamente irritato passava le serate ad affilare inquietanti coltelli. La fu spalla di Sam Cooke che dava manforte alle armonie zoppicanti di Keef?! Ma ci sarà stata sul serio l'affannosa ricerca sulle Pagine Gialle del preoccupato Woody? Sliding doors improbabili, mai confermate, citate nei circoli esclusivi, alla stregua di provocazioni utilizzate a mo' di scossa. Proprio come il ritorno a pieno regime di Womack. Che significa? Serve? È reale? Funziona? Cos'è, la solita operazione di soul revival? Calzerebbe pure a pennello in un'epoca spesso votata alla ricerca della nostalgia.
Peccato, o per fortuna, che dietro le manopole di questo comeback mica tanto atteso ci siano anche Richard Russell - il tizio che confezionò il suono simil-polveroso della rentrée di Gil Scott-Heron, dimenticandosi però di apparecchiare un adeguato spartito di canzoni - e il solito Albarn, definitivamente votato alla dimensione di workaholic. E allora ecco uno sfondo minimale, electro, percussivo ma senza esagerare, contornato da qualche tocco di arco e dal pianoforte discreto ma ben posizionato del leader dei Blur e di quell'altra decina di gruppi/progetti. Una scelta azzeccata, perché sin dal principio si capisce che lo strumento principale è l'ugola sofferta, anziana, minata ma mai doma di Womack, sparata in primo piano, che prova a lacerare, sospirare, commuovere come ai vecchi tempi. Che però sono cambiati, dominati da cuori di pietra, sensibili solo per cinque minuti cinque.
E allora "The Bravest Man In The Universe" è un bel giocattolo, un piacevole diversivo, con momenti anche sorprendenti - come la notturna "Whatever Happened To The Times", un omaggio noir a qualche vecchia soundtrack poliziesca di trent'anni fa, con James Caan protagonista in fuga, come se dietro tutto i Tangerine Dream di Michael Mann provassero a scalfire le sicurezze del vecchio soul man, oppure nel breve semi-gospel di "Deep River", con scarno accompagnamento chitarristico in appoggio. Ma è forse la doppietta iniziale che fa la differenza, con la title track incalzante e la voce di Womack che tira e aggredisce, e con la seguente "Please Forgive My Heart" che svela i contorni di un modello ampiamente sviscerato un bel po' di anni fa da Moby con "Play", quello delle ballate soul-blues con un contorno di elettronica evocativa. E la pastosità vocale di Womack si sposa bene anche con l'indolenza maliziosa di Lana Del Rey, ospite sorprendentemente in parte, fino a diventarne mattatrice, di "Dayglo Reflection".
Altrove le cose non funzionano così bene, e "Love Is Gonna Lift You Up" ha lo stesso passo sbarazzino di una hit estiva del 1987 di Whitney Houston... Mentre in "Jubilee" Womack fatica a tenere il passo di ritmiche troppo ossessive e finisce per risultare volgare. Ma pochi perderanno il tempo in sterili polemiche che hanno fatto ampiamente il loro tempo: autenticità vs. plastica, passione vera vs. passione finta. Altre epoche, quando Jeff Beck "tradiva" la sua storia chiamando in cabina di regia Nile Rodgers e Arthur Baker, roba da panolada ante-litteram. Qui il fazzoletto lo si può usare per asciugarsi le labbra dopo un bel sorso di cedrata mentre sotto Womack prova ad accompagnare il classico pomeriggio pre-canicola. Dopotutto, non gli riesce neanche male.
(16/06/2012)