Considerata la tendenza di Robert Pollard, da circa sei anni a questa parte, a pubblicare almeno un paio di dischi all'anno, ormai anche il fan più accanito rischia di temere che il proprio beniamino si presenti regolarmente sul mercato col solo scopo di mettere su nastro qualsiasi idea gli passi per la testa, valida o meno che sia.
Va però subito sottolineato come le recenti prove altalenanti (quando non incolori) del Pollard solista siano da tenere a distanza da questo travagliato ritorno a nome Guided By Voices (con la band scioltasi e riunitasi nel giro di un anno) in cui, a distanza di ben otto anni dall'ultima fatica in studio, il Nostro riesce a fornire una convincente prova di onestà artistica, cavalcando gli stessi lidi che avevano reso grande la band durante i 90, senza che l'album assuma la connotazione di patetico lifting, la quale è spesso parte integrante del concetto di reunion.
Ovviamente, nel bene e nel male, sempre di Robert Pollard si tratta e così anche questo "Let's Go Eat The Factory" è un'oceanica distesa di ventuno tracce o frammenti di esse, in cui la linea tra capacità di sintesi e incompiutezza è sì molto sottile, ma la qualità del songwriting permette di individuare un senso di compattezza anche nell'anarchia di brani che, a un primo ascolto, appaiono solamente abbozzati. La consueta tendenza ad adornare la tracklist con schegge impazzite spesso fini a sé stesse, si sa, è parte del prezzo del biglietto e, anche qui, ci si domanda quale sia l'effettiva utilità di una "Fitter Happier" radioheadiana, ripassata in modo fin troppo scolastico in "Things We Never Need", o dello sproloquio blues in salsa Beefheart "The Big Hat And Toy Show".
La verità è, però, che questi momenti di puro divertissement, pur stemperando eccessivamente la tensione, non scalfiscono la bellezza delle gemme sparse lungo il cammino: l'unico accordo di tastiera che ammorbidisce una "The Head" impossessata dal demone di Black Francis o il balbettante flauto à-la "Wasteland" dei Jam, che apre sul godibilissimo teenage pop di "Doughnut For A Snowman", testimoniano una cura per semplici ma efficaci dettagli che, paradossalmente, la brevità dei brani si trova a esaltare.
Quando poi la Musa ispiratrice di Pollard si decide a collaborare per davvero sbucano, quasi in punta di piedi, un piccolo capolavoro melodico di krauta inafferrabilità come "Waves" e il non-singolo "Chocolate Boy", il cui gustoso arrangiamento d'archi strappa qualche lacrima al pensiero dei quattro geni di Athens ritiratisi di recente. Nel vortice d' influenze sapientemente rigurgitate dai Guided by Voices non mancano i consueti accenni beatlesiani, con i Favolosi chiamati in causa in una rarefatta "Who Invented The Sun", che sa fin troppo di "White Album", e direttamente citati in "Hang Mr. Kite", in cui il Signor Aquilone di "Sgt. Pepper" si trova a fluttuare tra minacciose nubi disegnate dagli archi.
Il vertice della forza evocativa viene però raggiunto in "Old Bones", melodrammatica dichiarazione d'amore che appare sussurrata da una creatura aliena in fin di vita e che testimonia una maturità raggiunta nello sfruttare lo studio di registrazione in maniera consapevole e professionale, senza autoconfinarsi nello status di band lo-fi i cui dischi dovrebbero per forza "suonare male" per testimoniare l'urgenza espressiva.
Con questo "Let's Go Eat The Factory" i Guided by Voices sono tornati in grande stile, con una manciata di composizioni che, con la loro immediatezza, possono fungere senza problemi da ottimo biglietto da visita per i neofiti e, al contempo, soddisfare gli estimatori di vecchia data, i quali certamente non si meraviglieranno davanti ad alcuni espedienti forse fin troppo abusati dai bardi di Dayton, ma non potranno fare a meno di godere di un'ispirazione compositiva ritrovata. Nella speranza di non attendere ancora quasi un decennio per un degno seguito.
13/01/2012