Tutto si potrà dire degli Ianva, tranne che siano sprovvisti di un grande coraggio, qualità troppo spesso latitante tra le schiere dell'indie-rock italico. Così, dopo l'istantanea dell'impresa fiumana di D'Annunzio in "Disobbedisco!" e l'affresco nazionale a tinte foschissime di "Italia: ultimo atto", la formazione genovese si catapulta in un terreno ancor più insidioso: un concept visionario, ambientato "in un futuro più che prossimo". E, conoscendo l'abituale "ottimismo" di Mercy e compagni, non può che essere uno scenario "da incubo", in cui "Italia e Europa sono sotto il tallone di un'oligarchia illuminata". Forse vi siamo già dentro, osserverà qualcuno, e con qualche ragione. Ma gli Ianva vi aggiungono i consueti ingredienti di disperato titanismo, raccontando le gesta di "un manipolo di temerari, diversissimi per origine e ideologia, ma accomunati da un destino inesorabile, che oseranno sfidare la potenza degli apparati scegliendo deliberatamente l'arma della sovversione estetica".
Un substrato narrativo mai così stratificato e ricco di simbolismi, quello di "La mano di gloria", che Mercy avrà poi modo di sviluppare nell'omonimo romanzo di prossima pubblicazione. Forse persino troppo complesso per un ascoltatore poco paziente, che non abbia tempo di addentrarsi tra le pieghe delle varie storie-canzoni, ognuna delle quali è dettagliatamente spiegata all'interno del voluminoso booklet (qui la versione online) con preziosa grafica a cura di Dinamo Innesco Rivoluzione. Per chi ha voglia di approfondire, invece, risulterà interessante persino lo spunto del titolo, ispirato da un'antica credenza dell'Europa rurale, secondo cui "la mano sinistra sottratta nottetempo a un impiccato, opportunamente trattata, costituiva un talismano tra i più potenti e versatili".
Protagonista del concept è un nuovo eroe dannunziano di nome Pietro Jorio, la cui etica rigorosa si sposa a un anelito rivoluzionario che, come nelle avanguardie primo-novecentesche, muove anzitutto da una suggestione estetica: "Non ribellarti perché è giusto, fallo perché è bello", il suo motto. Attorno a lui, si forma un manipolo di nuovi, irriducibili "disertori": folli, eretici, anarchici, visionari, sognatori, uniti in un insolito movimento di sovversione politico-artistica, destinato inevitabilmente alla sconfitta.
Musicalmente, l'approdo in campo fantasy risveglia la componente martial-folk, sacrificata in parte nel precedente lavoro, ed esalta l'epicità dei loro melodrammi ben piantati nella tradizione italiana, venandoli di risvolti oscuri e psichedelici. L'ormai consolidata vocazione alla soundtrack music funge, invece, da collante per tenere insieme i 73 minuti di musica, attraverso uno spiccato taglio cinematografico. Un suono, al solito, completamente fuori dal tempo: retrò, ma senza mai ammiccare al revival; cupo, ma refrattario alle necrofilie dark; romantico, ma senza cedimenti alla svenevolezza.
La struttura è quella classica: con tanto di prologo recitato ("Tempus Destruendi") ed enfatica irruzione delle trombe ad assecondare il vibrante cantato di Mercy in una nuova, convincente ballata stile-Ardito ("Il bello della sfida"). Ma gli Ianva non hanno paura di dar forma a spericolati ibridi come "Edelweiss" - ritratto d'eroina-artista tirolese che si ribella alla rimozione di un crocifisso - in cui cadenze western morriconiane si sposano a un ritornello sepolcrale (in tedesco) che riecheggia la "Heart And Soul" dei Joy Division. E quando entra in scena la chanteuse-D'Alterio, riapre i battenti un noir-cabaret d'antan, dove la polvere dei ricordi accompagna preghiere blasfeme ("Sul mio sangue") e tormenti amorosi si consumano nel mezzo di ancestrali cerimonie in un solstizio d'estate ("Le stelle e i falò").
Torna anche l'espediente dello spoken word, funzionale soprattutto alla title track-manifesto, in cui G\Ab Svenym Volgar dei Xacrestani (Deviate Damaen) presta la voce a Pietro Jorio per una rassegna delle atrocità del Combinat, mostruoso aggregato oligarchico-affarista-criminale ("la testa di un serpente le cui spire stanno soffocando il mondo").
Meno a fuoco dei precedenti lavori sono soprattutto le canzoni e le melodie, un po' sacrificate in nome della sontuosità del sound e del progetto narrativo nel suo complesso. Il rischio, insomma, è di affogare il pathos nelle sabbie mobili della prolissità e dell'auto-indulgenza. Ma anche laddove la spia rossa si accende, come nelle tracce conclusive, resta pur sempre rimarchevole il lavoro sul suono e sugli arrangiamenti, in cui gli strumenti acustici della canzone tradizionale (chitarre, trombe, violini, fisarmoniche) si saldano ai cori apocalittici e al passo marziale del neofolk.
Pur corredato da un apparato ideologico discutibile, alimentato qui da nuove, allucinate invettive contro i nemici di sempre (progressismo, scientismo, relativismo, femminismo etc.), il progetto Ianva si conferma un'affascinante eresia in un panorama sempre più piatto e omologato come quello dell'indie italiano.
17/06/2012