Dove eravamo rimasti? Era il 2004, ben nove anni fa quando i Fates Warning pubblicarono la loro decima e fino ad allora ultima fatica, quel “FWX” dignitoso ma non indimenticabile, soprattutto se paragonato ai suoi ingombranti predecessori.
La band del Connecticut, dopo esser stata tra le storiche fondatrici del cosidetto movimento metal-progressive e avervi contribuito decisivamente per gran parte della loro carriera - con dischi storici come “Perfect Symmetry”, “A Pleasant Shade of Gray” e “Disconnected” - sembrava avesse perso interesse nel continuare a sfornare album.
Molto è accaduto da allora: l’addio di Mark Zonder, che di fatto con il suo elegante drumming portò la band a livelli fino ad allora solamente intravisti, seguito dagli innumerevoli progetti come Osi, Armored Saint e Redemption che hanno coinvolto i vari componenti della band. Poi venne il momento di “Sympathetic Resonance”, progetto del duo Arch/Matheos, che poteva esser percepito come una sorta di revival, vista la presenza di figure attuali ma anche primordiali della band (tra cui il chitarrista Frank Aresti e, appunto, il cantante dei primi tempi John Arch).
Oggi, quando forse pochi ricordano ancora l’esistenza della seminale band americana, arriva la sospirata undicesima creatura. La prima cosa che si può notare è che le presenze dell’ormai re-integrato Frank Aresti e del successore di Zonder, il muscolare Bobby Jarzombek, si sentono e pure parecchio. Visto lo stile dei due musicisti e, perché no, il titolo scelto per il nuovo album, non sorprende più di tanto la decisa virata verso sonorità più oscure e fredde.
“Darkness In A Different Light” inizia a martellare l’ascoltatore dai primi secondi della traccia di esordio “One Thousand Fires”, la quale offre un sunto di ciò che si troverà nel resto del platter. L’apporto del batterista di origini polacche è chiaramente agli antipodi rispetto ai raffinatissimi tocchi di Zonder, un esecutore riconoscibile tra mille, offrendo ritmiche più energiche e in perfetta sintonia con il groove del basso di Joey Vera. Il risultato è una poderosa cavalcata che non lascia un minuto di respiro, dettando i tempi al duo chitarristico Aresti e Matheos, con il loro riffing sporco e massiccio.
Le soluzioni sono sorpendentemente brillanti: il sound è granitico e potente, con molte finezze al punto giusto, ma non perde mai il contatto con la melodia, ottenendo quindi un raro equilibrio che troppe volte è venuto a mancare nel metal di matrice progressiva, spesso vittima di sterili manifestazioni di abilità “circensi”. Qui la componente tecnica è del livello elevato che ci si aspetta, ma non ci sono eccessi, tutto è funzionale a ciò che vogliono ottenere le tracce che si susseguono l'una all’altra in rapida esecuzione. Nessuno strumentista prevale sugli altri: Aresti squarcia più volte i brani con assoli fulminanti, per poi tornare puntualmente al suo posto come un gregario qualunque, mentre Jarzombek stupisce per come riesce a picchiare duro con discrezione: un pugno di ferro in un guanto di velluto che non invade la scena, non facendo rimpiangere il suo illustre e sempre rimpianto predecessore.
Si arriva a un punto dell’ascolto in cui ci si ricorda, con ritardo, che questo è il primo album dopo molti anni a non godere del contributo di un tastierista, quando proprio le tastiere dell’eccellente Kevin Moore avevano fortemente e decisivamente arricchito le atmosfere dei due miglior episodi della band: “A Pleasant Shade Of Gray” e “Disconnected”.
Nonostante una così ricca sezione strumentale, la voce di Alder è tutt’altro che in secondo piano. Gli anni sono passati per il frontman di San Diego e le note alte toccate in “No Exit” sono ormai irraggiungibili ma, come talvolta fortunatamente accade, il calo di estensione diventa più un’opportunità che una penalizzazione, dotando la sua voce di un timbro caldo e decisamente più espressivo rispetto ai suoi a volte eccessivi vocalizzi ottantiani. Tutto ciò è avvertibile nei brani più melodici, come il singolo “Firefly” o nell’intermezzo a cappella “Falling”.
Come detto, proprio la riuscita integrazione della componente melodica con le strutture heavy metal proposte rendono speciale “Darkness In A Different Light”: la già citata “Firefly” alterna un ritornello catchy a un andamento sincopato dove i tre "addetti alle corde" alternano folate di riff distorti a break improvvisi; “Desire” propone alcune sensuali sonorità vagamente zeppeliniane per poi demolire il tutto con il poderoso muro di suono nel finale; “I Am” omaggia chiaramente i Tool con intrecci intricati tra basso e chitarre, spalleggiati da una performance di un Alder in grande spolvero.
In definitiva, troviamo tutto quello che non era riuscito nell’ultimo “FWX”, in alcuni punti appiattito da melodie un po' blande, sorrette da un songwriting appannato.
Oltre alla citata band californiana, autrice di “Lateralus”, ci sono pochi altri riferimenti stilistici ad altri artisti chiaramente avvertibili, indice di uno stile in continua mutazione ma sempre di gran personalità. Si odono echi dei Porcupine Tree in “Into The Black”, ma è solo un’illusione perché il fraseggio ossessivo di Matheos, antico trademark della band americana, spunta fuori inesorabile.
Nonostante si sia posto l’accento sulla notevole componente melodica non va dimenticato che si sta parlando pur sempre di una band progressive, quindi la presenza della mastodontica maratona “And Yet It Moves” a suggello dell’opera non sorpende troppo. La chitarra acustica spagnoleggiante che introduce i 14 minuti del brano è un tuffo nei ricordi e porta l’ascoltatore di vecchia data a pensare a una nuova “The Ivory Gates Of Dreams”. Il risultato è tuttavia assai diverso: la suite è compatta e uniforme, nonostante la gran varietà di soluzioni proposte. Le sonorità sembrano aprirsi gradualmente e le composizioni diventano più ariose, rischiarando gradualmente l’atmosfera cupa e quasi glaciale respirata fino ad allora, portando a conclusione un lavoro che probabilmente ha superato le più rosee aspettative, forse intiepidite dai tanti anni di attesa.
In tempi di crisi artistica del metal-progressive, con il tracollo più o meno evidente degli altri pionieri (leggi: Dream Theater e Queensrÿche) e la generale mancanza di spessore di molte delle nuove proposte del nuovo millennio, ci troviamo probabilmente di fronte a uno dei migliori dischi, nel suo genere, dell'ultima decade. L’impressione di tornare per un po' ai bei vecchi tempi è forte, chiara e molto piacevole. Speriamo di non dover attendere altri nove anni.
03/11/2013