E’ il 2006 e i fratellini Dreijer sganciano dal cilindro il loro terzo disco, distaccandosi ancora una volta dal passato, dando vita a uno dei migliori esempi di synth-pop postmoderno degli anni Zero. Segue una meravigliosa tournée in giro per l’Europa con proiezioni, maschere e suoni d’antologia a rendere il tutto ancora più surreale e tremendamente accattivante. Poi una lunga pausa con Karin impegnata nel suo personale progetto Fever Ray (comunque supportata dal fratellino) e l’electro-opera teatrale a nome Knife con Matthew Sims, aka Mount Sims, e Janine "Planningtorock" Jostron, a segnalare un distacco totale dalla creatura originaria. "Tomorrow In A Year" è in effetti un esperimento a sé, da non considerarsi allineabile con la restante discografia del duo. L’inconfutabile prova di una versatilità e di una ricerca sonora fuori dagli schemi e dalle piazze. Alla luce di tali considerazioni, sette anni d’attesa sono dunque tanti, forse troppi nell’era digitale e del consumismo musicale sfrenato in cui le emozioni bruciano a una velocità pazzesca, quasi fossero usa e getta. Insomma, per i due svedesi lo scorrere del tempo e delle condizioni a quanto pare non conta e l’ispirazione è saggiamente posta sopra ogni cosa. A Olof e Karin importa innanzitutto la bontà delle proprie intenzioni, lo spirito giusto attraverso cui sciogliere le proprie riserve e la spinta propulsiva con la quale modellare la propria musica. “Il coltello” è quindi affondato solo quando le cose girano a dovere e la mano è ben ferma ai controlli.
Così, “Shaking The Habitual” arriva dopo svariate mutazioni parallele e con una ritrovata consapevolezza, a suggellare ancora una volta l’indomita smania dei due Dreijer nell’intraprendere sistematicamente le direzioni più insolite. Stavolta, è una profonda ricerca di un precostituito esoterismo electro a scuotere l'ossatura del suono targato Knife. C’è da shakerare l’abitudine, la quotidianità, l’elemento ciclico. Il ritmo diventa così asettico e a suo modo tribale, mentre vengono riposti nel cassetto i bagliori sintetici di grande resa che caratterizzavano l'anima pulsante di "Silent Shout". A tratti è intuibile anche un certo ritorno alle origini, e in alcuni fraseggi riappare l'armamentario avantgarde e la passione per l’obliquità dei suoni, vedi la suite "Old Dreams Waiting To Be Realized" in scia Amon Duul II (!) versione "The Marilyn Monroe-Memorial-Church". E basta un solo intermezzo strumentale ("Crake", la stessa "Oryx") a evidenziare prepotentemente questa fuga quartomondista dal pianeta Terra, senza scomodare l'altro trip iniziatico del disco ("Cherry On Top").
Il tambureggiare sbilenco di "Raging Lung", con tanto di fiato distorto nel finale, rasenta poi sentieri mistici, così come il crescendo nevrotico e oscenamente pimpante di "Networking". Mentre la follia totale palesata in "Fracking Fluid Injection" devia ulteriormente la faccenda, già di per sé eccessivamente spinosa. Dieci minuti esatti di lamenti, invocazioni e un'ondulazione metallica come metronomo prima di cadere nel burrone, a destar sgomento e un’insolita perdizione sensoriale. "Ready To Lose" chiude infine le “danze” con Karin che intona nuovamente (e finalmente) qualcosa di sensato e conciliante.
Meritano una differente considerazione le due tracce più immediate del disco, ovverosia "A Tooth For An Eye" (Bjork nel mirino) e l’ossessiva "Full Of Fire", per certi versi entrambe prive di elementi destabilizzanti, al contrario della danza voodoo in perfetto stile Knife di "Without You My Life Would Be Boring". Nell'album, domina comunque una minore plasticità nei suoni, e si evince una maggiore psichedelia nelle varie sfumature. Alcune brevi parti strumentali rimandano a sprazzi le piroette cosmiche dei corrieri crucchi. Talvolta, si avverte finanche un’atmosfera asfissiante, clamorosamente spigolosa, con la Dreijer mai così acida e deturpata, tanto da sguazzare in diversi punti come una Bjork meno angolare nella direzionalità delle corde vocali, ma con una schizofrenia esecutiva decisamente personale.
I due schizzano un po' a destra e a manca, sia nel ritmo, sia nelle presunte e poche "melodie", sovrapponendo agilmente le loro deviazioni elettroniche senza intaccare la resa e l'insieme reso perennemente mutevole e discordante. L'oscurità disarmante dell'omonimo "Fever Ray", attraverso cui Karin Dreijer è riuscita a fuoriuscire magnificamente dall'assetto Knife, mantenendosi mediante le atmosfere create nei pressi di una caverna sonora, è dunque solo un amorevole ricordo. In “Shaking The Habitual” c'è ben altro a cui badare. C'è sicuramente meno "maniera". Si danza in una foresta perduta, tra sciamani cibernetici e riti amletici. E' doveroso segnalare anche la maggiore vicinanza alle ultime creazioni di Janine Rostron, loro amica e collaboratrice a più riprese (non a caso, le vennero affidati dei remix ufficiali di pezzi degli stessi Knife già nel lontano 2005). In tal senso, l'ipnotica andatura di "Stay Out Here" pare essere uscita da un disco qualunque della stessa Janine.
“Shaking The Habitual” è in definitiva un disco che dividerà formalmente tutti coloro che seguono il duo fin dalle origini, deludendo sicuramente chi si aspetta una maggiore fruibilità melodica e una pulsazione più lineare, ma emozionando quella fetta di adulatori disposta a seguire qualsiasi rotta intrapresa dagli svedesi. L’intrigante viaggio musicale della coppia più bizzarra dell’elettronica scandinava procede dunque a gonfie vele, e senza cedere a fermate accomodanti prive di una qualsiasi identità artistica.
01/04/2013