Poco da dire, Darren "Actress" Cunningham è in grado come pochi suoi contemporanei di dissimulare se stesso in un intrico disarticolato di citazioni, indizi e soprattutto lacunosi silenzi. Classe Ottantanove, quella di Actress è una personalità timida e introversa che si schiude occasionalmente in dichiarazioni dai toni messianici e in dischi apparentemente scompaginati e contraddittori. Questo almeno quello che è possibile dedurre da un percorso breve ma fitto a sufficienza, tanto da poter cominciare a tirarne le fila: nello specifico, l’esordio “Hazyville”, ammantato da ambiguità stilistica inalberata (dupstep? downtempo? garage? ambient-glitch?) da raggiungere coolness e popolarità istantanea, e soprattutto il più caldeggiato “R.I.P.”, possibilmente ancora più frammentario ma venato di quello che in altri tempo si sarebbe detto “sentimento”.
Bene, chi sperava che “Ghettoville” avrebbe regalato la chiave di lettura definitiva dei rebus retro-futuristici di Actress è destinato a rimanere inesorabilmente, ancora una volta, insoddisfatto.
Dopo aver concluso il metaforico ciclo di morte e resurrezione di “R.I.P.”, Actress sceglie questa volta di portare alle estreme conseguenze la sua ricetta stilistica, mettendo su una sorta di dancefloor elettronico al negativo: bassi pompati come mai prima, equalizzatori esasperati, screziature e sporcizia quali sottoprodotti esaltati da una attività di iper-produzione coscientemente estenuata (si sentano in questo senso “Street Corp”, “Towers” e “Gaze”, ovvero i Demdike Stare con il Burial più spettrale tra le mani, oppure gli slow-motion in stile Hype Williams di “Corner”, “Contagious” e “Rap”).
Gli episodi più riusciti si rivelano essere però quelli edificati sulla melodia, se melodia può essere definita l’oziosa folata sintetica di “Birdcage” o la sottile malinconia “glitch” di “Our”, assieme a “Frontline” probabilmente il pezzo più vicino al suono di “R.I.P.”.
Ma non occorre certo uno sforzo eccessivo per accorgersi che quella di “Ghettoville” è solo una radicalizzazione di forma: il cuore dell’album anche in questo caso evapora in una dispersione di impulsi e rimandi perfettamente in linea con il suo predecessore. La differenza risiede semmai nel fatto che, laddove “R.I.P.” incastrava frammenti in una visione di insieme decisamente unitaria, il quadro di “Ghettoville” sembra invece avere a che fare troppo spesso con una scarsa lucidità di intenzioni, cui si aggiunge a mo’ di zavorra anche la durata generosa del lotto (settanta minuti) e alcuni episodi leggermente sottotono (“Rims”, “Image”).
Insomma, l’illusione di vedere finalmente chiarito l’enigma sibillino di Actress fallisce una volta in più. Attese da rinnovare al prossimo giro? Nient’affatto: Cunningham infatti ha dichiarato apertamente che “Ghettoville” segna la fine (questa volta senza resurrezione) del progetto Actress e di ogni attività ad esso collegata, riservando il futuro con ogni probabilità ad altri moniker, dopo una pausa di riflessione. Rest in peace.
25/01/2014