Quando per un artista non esordiente arriva l’ora del fatidico album eponimo, è automatico pensare che quel disco nasca già con un carico supplementare di messaggi, speranze e considerazioni sul proprio vissuto che era nei propositi del musicista fissare in forma di canzoni, non senza una certa urgenza. Questo sarà anche solo un luogo comune, ma non è raro che lavori del genere si presentino ai propri ascoltatori con la fisionomia autoriale e le prerogative di un ideale consuntivo. E’ proprio questa la categoria in cui sembra rientrare per temperamento l’ultima fatica di Natalie Merchant, che arriva nei negozi a quattro anni dall’uscita precedente e a ben tredici dall’ultima raccolta di materiale interamente originale.
Ha da poco compiuto cinquant’anni la Emily Dickinson di Jamestown. Gli splendidi capelli corvini si sono fatti grigi mentre si consumava la fine del matrimonio con il documentarista Daniel de la Calle, pur senza particolari strascichi: abbastanza traguardi o novità da indurla a tornare a raccontarsi, lasciando da parte l’inclinazione al fiabesco e all’infanzia di “Leave Your Sleep” per riabbracciare registri più in linea con la sua poetica asciutta e sommessa. Non è un caso che a introdurci sia un senso di quiete e assoluta pacificazione, mentre la musica richiama apertamente i 10,000 Maniacs di “Our Time In Eden” per quanto in una versione depurata, trasparente, pochi orli aggraziati e appena un intervento corale minimalista a rinforzo.
Natalie ha così modo di mostrarsi con la massima naturalezza, perfettamente a suo agio in quella condotta di frugale e limpida introspezione, nonostante l’ombra intatta dell’inconfondibile, dolente riserbo: sa ancora incantare, e a non farci dubitare che tutto questo tempo sia davvero passato è solo il tono più maturo della sua interpretazione. Poco oltre è un’altra ballad intimista, “Texas”, a rivelarcela per la superba ballerina sulle corde del cuore che in fin dei conti è sempre stata, indipendentemente dagli artifici della forma: caparbia e incantevole al tempo stesso, con una giustezza negli accompagnamenti strumentali in decisa controtendenza rispetto a tante colleghe più giovani di lei.
Le tonalità gravi prevalgono anche in “Maggie Said”, episodio più scarno in cui quasi solo la voce ha spazio. Un refrain che ripropone al meglio le grandi suggestioni di cui è capace apre a una luce benevola, cristallina. Così il tenore potrà apparire umbratile, uggioso, ma si tratterà sempre di un’errata impressione. La nuova Merchant è tutto sommato rasserenata e l’equilibrio che affiora dal songwriting come dalla confezione del disco non fa che renderle piena giustizia, rappresentandola fedelmente. Si tratta in fondo di una sorta di ritorno alle origini, all’essenzialità di “The Wishing Chair”, un contesto sonoro in cui la cantante si muove con determinazione e leggerezza dagli esordi. Questo riguarda senz’altro i brani roots ma pare osservazione valida anche per l’insolito, commosso passaggio di “Go Down, Moses”, innervato dalle pennellate gospel di Corliss Stafford e dalla scorta, mai troppo vistosa, di fiati e organi: un’incursione in territori per lei non proprio canonici (come era capitato a più riprese in “Motherland”) operata da Natalie alla sua maniera, in punta di piedi, utile a irrobustire e dare un po’ di colore all’insieme.
I “sette peccati capitali” che seguono a stretto giro di posta ce la restituiscono in una posa austera e non priva di amarezza, come nelle pagine meno rosee o accomodanti del passato. Chi la conosce sa però bene come la cantante dei 10,000 Maniacs si sia sempre mostrata incline, a modo suo, a una sottile intonazione melodrammatica, adottata peraltro senza enfatiche compromissioni e senza mai abusarne.
Anche in frangenti non certo facili e persino seriosi, come quest’ultimo, il formidabile rigore degli arrangiamenti dà lustro alla solennità come alla dignità della sua prova, facendo risaltare la varietà di un lavoro al solito sfaccettato e tutt’altro che epidermico. Nella seconda facciata si torna a deviare dalla via maestra folk-cantautoriale con la voluttuosa atmosfera da live club notturno di “It’s A-Coming” o le parche spruzzate jazz-blues di “Black Sheep”, digressioni non sanguigne come forse avrebbero potuto, ma comunque intriganti.
La presenza di Natalie si fa allora via via più plastica, sensuale, prima che una marcetta in stile vaudeville introduca il titolo forse più riconoscibile del nuovo album (“Lulu”, dedicata alla diva del cinema muto, Louise Brooks), azzerando ogni anomalia. Torna così in scena la songwriter delicata, radiosa e struggente, per quanto un po’ troppo condizionata dall’impronta classicheggiante e retorica della parte musicale.
Uno dei limiti di “Natalie Merchant” emerge allora qui con maggior evidenza – chiaro risvolto della medaglia – ed è la sua prolissità. Il finale patisce il medesimo incaglio per quanto, nelle intenzioni, i fregi degli archi servissero più che altro a garantire una sostanziale lievità. Certo però, quando è la sua voce ad accoglierci e condurci in un altrove a tal punto distante dalla volgarità quotidiana, è indubbio come la classe purissima di questa straordinaria cantautrice rimanga il classico dettaglio che non potrà mai essere messo in discussione, nemmeno alla prossima ricorrenza.
29/06/2014