A 15 anni dall’uscita del capolavoro “Microchip Emozionale”, cosa è rimasto dei giovani Subsonica? La formazione di Torino è passata dal suonare nei piccoli club a riempire i palazzetti e, come ogni band che cresce e diventa popolare, ha dovuto negli anni dimostrare di sapere reinventarsi e allo stesso tempo gestire il bilico tra la propria identità e l’essere solo l’ombra di se stessi. I Subsonica in questo decennio sono stati tanto e tanto altro ancora. Elettronica, dance, dub e funk, rock e pop, ma rimanendo sempre ancorati a un proprio stile ben riconoscibile, un comune denominatore mai assente. I Subsonica sono i Subsonica, e nessun altro è i Subsonica (tautologia a parte).
Quindi cosa è rimasto del loro secondo disco? Molto, se si pensa che possiedono ancora quel comune denominatore, ma se si confrontano strettamente le tematiche e i ritmi spinti di “Microchip” e “Amorematico” con i lavori successivi, nulla è uguale a prima. Anche se non sono mancati i grandi pezzi, gli ultimi album hanno avuto una svolta decisamente più pop e quella voglia di amalgamare su ogni livello - lessicale, musicale, sintattico - natura e tecnologia, vita e artificiale, è andata via via scemando. “Una nave in una foresta” ci fa capire sin dalla copertina che qualcosa è cambiato rispetto al passato: per la prima volta il titolo è formato da un’intera frase. Allo stesso tempo vi è quel ritorno all’accostamento di due elementi totalmente diversi tra loro: il bosco e l’ingegno umano, in cerca di un contatto, un equilibrio. Una barca in una foresta, in dialetto torinese, indica qualcosa fuori contesto: nove storie, nove personaggi estraniati "che vivono in una linea di instabilità. Che pregano, che sperano", come dichiarato a Repubblica da Max Casacci (co-scrittore dei testi insieme a Samuel).
L’album viene introdotto dalla title track: una ritmica sostenuta a pari merito da batteria acustica ed elettronica, condita da synth che si rincorrono e tastiere che la fanno da padrone. Un’elettronica leggera e oscura che nel finale vira verso suoni dance: il risultato è molto gradevole, anche per quanto riguarda il cantato. Dopo il buon inizio seguono velocemente la mediocre “Tra le labbra” e il primo singolo estratto, che trasuda Subsonica da ogni poro. Piacevole da ascoltare, ma nulla più che la fotocopia di ciò che i torinesi ci hanno presentato più e più volte. Sicuramente sarebbe stato molto più efficace se non fossero ormai arrivati al settimo lavoro. Al quarto brano arriva la prima vera perla di “Una nave in una foresta”: batteria che cresce in sincronia al cantato di Samuel lungo tutti i 3 minuti, effetti campionati che guizzano e scompaiono quasi a caso (ma in realtà ogni elemento è al posto giusto), il tutto dominato da un riff di chitarra elettrica che fa l’occhiolino alla surf music e ai gangster-movie. “Attacca il panico” è una canzone travolgente che cerca di esorcizzare la paura di andare avanti ed essere se stessi attraverso il ritmo e possiede tutto ciò che ci si aspetta da loro senza risultare banale.
Purtroppo all’ottima performance succede un pezzo mediocre per una band di questo livello, sicuramente il punto più basso dell’album, se non dell’intera carriera: “Di domenica” è nato per essere un singolo con cui scalare la classifica di iTunes. Per fortuna l’immaginario lato B colma il vuoto di ballad à-la Subsonica con l’ipnotica “I cerchi negli alberi” e la notturna e nostalgica “Licantropia”, che accompagna l’ascoltatore verso il gran finale.
Il secondo picco dell’album arriva con la settima traccia. Pochi giri di parole: “Specchio”, insieme al brano conclusivo, è il più interessante dell’opera settima. Samuel ci riporta negli abissi di “Depre” e trascinato dal basso in un funk travolgente, veste i panni di chi si confronta ossessivamente con la propria immagine e il proprio essere. Il cambio d’abiti è repentino e il costume adesso è quello del maschio alpha del nuovo millennio in “In love with his car”, parafrasando Roger Taylor in “A Night At The Opera”. Più interessato a far salire i giri del motore che a prendere confidenza coi freni; a vivere la vita con adrenalina che alla vita stessa. Una breve intro rubata a colazione ai Supertramp apre alla forma-canzone classica del quintetto: ritmo acceso, voce disincantata e finta fine a ⅘ di canzone. Funziona, lo sanno benissimo e la formula non ha segreti per loro. Purtroppo però “Ritmo Abarth” non è niente di diverso da “Lazzaro”: qualcosa di già sentito più e più volte, una base che non spicca e un testo che poteva dare molto di più.
Concluse le nove storie, Boosta e soci ci aprono le porte all’unico vero pezzo sperimentale. Attratti ancora una volta dal dualismo tra artificio e natura, accolgono nell’opera il manifesto di Michelangelo Pistoletto, la cui voce si avvolge a quella di Samuel per descrivere il Terzo Paradiso, un progetto per condurre "[...] l’artificio, cioè la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la politica a restituire vita alla Terra. Terzo Paradiso significa il passaggio ad un nuovo livello di civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza".
Può considerarsi una sintesi del loro essere: i concetti-chiave del gruppo si muovono su una base che muta continuamente, destrutturata, che ricorda una versione meno rumorosa degli “Atmosferico I-IV” contenuti in “Amorematico”. Bassi forti, suoni limpidi e precisi, per una canzone che educa e incanta.
Se tutti i brani fossero su questo livello, non avremmo dubbi nell’affermare che siano tuttora i migliori rappresentanti della musica italiana. È pur vero però che, nonostante non abbia troppe cadute e contenga qualche bel titolo, il disco non riesca a convincere del tutto. Tutte le tracce sanno di Subsonica, ma a trascinare davvero sono solo quelle che ricordano i primi rivoluzionari lavori senza risultarne dei meri ricalchi. Quelle in cui raccontano storie distaccate dalla loro persona, quasi si percepisse che entrano in una parte, un personaggio, vivo di sentimenti ed emozioni, ma fuori dal loro essere. Qualcosa che ricorda un po’ Peter Gabriel e le sue maschere. Le musiche sono sempre di alto livello, senza alcuna eccezione, sono i testi purtroppo a essere sbiaditi, semplicismi di liriche ormai lontane.
Anche se probabilmente non entrerà tra i migliori album italiani, “Una nave in una foresta” ci fa ben sperare: i Subsonica forse saranno invecchiati, ma non sono morti del tutto. Basta solo che trovino l’entrata del Terzo Paradiso.
01/11/2014