Ed è questo il caso di “Holographic Codex”, in cui ad affiancarlo c'è nientemeno che Mr. Dada Records Lorenzo Montanà, ex-braccio destro del compianto Pete Namlook e che oggi ha raggiunto la nutrita colonia italiana a casa Psychonavigation (imperdibile, proprio sull'etichetta irlandese, “Leema Hactus” dell'anno scorso), senza voler contare il suo curriculum di produttore. Un musicista che ha saputo fare dell'elettronica una tela sottile, chiara e densa su cui dipingere usando le melodie come fossero acquerelli. Sul disco il discorso potrebbe essere più breve che mai: è un lavoro da ascoltare e a cui concedersi, lasciando da parte ogni forma di preconcetto perché ne nasce al dì fuori. Un lavoro la cui squisita sensibilità si traduce in un tripudio di sensazioni, fisiche quanto mentali, che variano in base all'attitudine e allo stato emotivo e mentale con cui l'ascoltatore singolo vi si pone.
Può prendere la forma di un viaggio interiore, di un'avventura in un mondo di fantasia, di una raccolta di immagini e visioni provenienti dalla Natura, di un flusso incostante e mutevole di suono, di un rituale indirizzato a una divinità, tanto quanto di una semplice, meravigliosa collezione di atmosfere. Così, l'anticamera è rappresentata dalla culla dei sensi di “Muns De Etrah”, forse il frutto più condiviso della collaborazione, con le inconfondibili armonie in loop di Alio Die luminose e fluttuanti, incanalate nell'ossatura elettronica appena percettibile di Montanà. Un'alba serena prima che inizi la salita, la cui quiete tornerà a stabilirsi solo nel finale immersivo e notturno dell'altrettanto splendida “Eternal Wisdom”, approdo ultimo del cammino.
Tra un estremo e l'altro, quella a cui si assiste è un'autentica tempesta di suggestioni. Un percorso che prende forma nel nuvoloso e ancestrale panorama à-la-Nerell di “Hydra E Vers”, apice spirituale assieme all'“ultima apocalisse” di “Silent Rumon”, dove la Natura sembra tuonare impetuosa in tutta la sua imperiosità prima di concedere l'accesso in una parte di mondo ancora solo sua. Proprio da qui, il soundscape torna quindi ad acquietarsi, quasi si fosse entrati in questa nuova dimensione, abbozzata in maniera impressionista nel crepuscolo solitario di “Egetora”, e poi delineata nel dettaglio fra gli arpeggi dello zither e i soffi vitali in presa diretta di “Cinta della Breccia Divina”.
Il vertice dell'intero lavoro per intensità è però “Akvil”, che nell'ideale trasfigurazione potrebbe prendere la forma del “ponte di giunzione” tra la prima e la seconda ambientazione. Un caleidoscopio affidato all'unisono delle pietre sonore e al loro dialogo con il silenzio, che oscilla magistralmente tra serenità e inquietudine. Qui la potenza evocativa, la magia misteriosa e la purezza senza pari del disco sono racchiuse e concentrate al massimo, a suggellare un capolavoro nel capolavoro. Un messaggio che il meraviglioso artwork elaborato dallo stesso Alio Die riesce a trasmettere già a un primissimo approccio con l'album.
Poco da aggiungere, a onor del vero, se non un profondo inchino a chi ancora oggi sa fare della musica qualcosa di più di una semplice forma di espressione artistico-creativa. Non è che la conferma della genialità di due musicisti il cui vero segreto, tornando all'inizio, è l'aver fatto di questo disco un vero e proprio luogo in cui condividere e conciliare le proprie sensibilità e i propri spiriti. Molto più, insomma, del semplice "suonare insieme".
(26/01/2015)