A volte la copertina non inganna, e anzi riflette il senso e le sensazioni dell'opera che identifica. In questo caso, un riflesso distorto e sfuggente deformato dalla dimensione onirica: se vi è capitato di assopirvi nel bel mezzo di un disco ricorderete senz'altro il momento in cui la musica si frappone al libero corso del vostro pensiero, creando associazioni di immagini e parole altrimenti impossibili.
In questa realtà parallela la voce di Annabel Lee è una reminiscenza di maniere e costumi scomparsi da tempo, presenza che emana da lunghissime pareti decorate, come nella reggia di Marienbad resa eterna da Resnais.
Non c'è genere che definisca ciò che accade in questo tableau vivant, popolato di presenze immanenti ma impalpabili evocate dal comprimario Richard E: fantasmi di orchestre e chitarre neofolk ritornano ossessivamente tra i solchi di un vinile consumato dall'umidità e dalla polvere, simile ai dischi rotti dell'antiquario Caretaker.
Per sfuggire alla monotonia del repertorio da night-club, Annabel si rifugia in questo sogno lucido dove può celebrare segretamente tutti e nessuno, da Ella Fitzgerald a Billie Holiday fino a Beth Gibbons e Fursaxa, in un mashup inafferrabile tra jazz, soul e canto popolare.
La poesia di Edgar Allan Poe (“Alone”) e di Kayla Lamarr (“My Homeland”) sono solo due delle tante altre ispirazioni di Annabel, che per mezzo della sua indole romantica sprigiona ricordi sepolti col suo canto etereo, fuori dal tempo proprio perché esistente unicamente nel regno della memoria.
22/06/2015