Il volto caricaturalmente rubicondo di Daniel Knox campeggia nella copertina del suo nuovo disco: terzo, ma omonimo, a interrompere una trilogia-concept che doveva concludersi appunto con una terza puntata, incentrata su personaggi immaginari. Chissà cosa è cambiato, nel frattempo. Per uno come lui, già autore di due album ma soprattutto con un curriculum di collaborazioni sterminato e illustrissimo (David Lynch, Jarvis Cocker, Andrew Bird, Swans, colonne sonore per cinema e teatro), non è cosa da poco, presentarsi così nudo, il volto affaticato, lo sguardo derelitto, oppresso da stenti materiali e spirituali come in un quadro ottocentesco.
È così, infatti, che i riferimenti con cui viene presentato (Harry Nilsson, Scott Walker, migliore l'assonanza timbrica col secondo) prendono una nota naturalmente "post", un'epica teatralizzata di un travaglio ineluttabile, che assume le proporzioni descritte nell'ultimo disco dell'ex-compagno di etichetta e patron, Lou Rogai ("High Pointe Drive").
Ballate al pianoforte che potrebbero far parte del bagaglio di decenni fa, come le splendide "David Charmicheal" e "Blue Car" (da immaginare cantata da Paul Anka), si ritrovano rallentate e trasportate in non-luoghi di sogno, tra organismi luminescenti e informi seconde voci. Progressioni da brividi raccontano un'America che scompare e riappare nei paesaggi della memoria, come il centro commerciale abbandonato "White Oaks Mall", mentre tenui arrangiamenti orchestrali sonorizzano il racconto di "Incident At White Hen", tra le tracce più impervie del disco.
"Daniel Knox" è un disco i cui movimenti non sempre risaltano, se non nella traccia più classica, "By The Venture", o nel piano bar con pianola a bocca di "Don't Touch Me"; ma concentrandosi sulle interpretazioni - memorabili - di Knox viene facile seguire il filo delle canzoni.
In fondo, poi, sembra intravedersi una catartica chiusura corale, in "14 15 111", ma subito torna il tema d'angoscia del brano, e il tutto va in dissolvenza su un inscrutabile rumore metropolitano. Il "rumore bianco" di DeLillo, quello che è diventato il sottofondo dell'America contemporanea, solitaria e confusa, fredda e desolata come in uno scenario post-apocalittico ("Lawrence & MacArthur"), ma ancora non priva di momenti di inebriante dinamismo e di inaspettato calore umano (la strumentale e cinematica "Car Blue"). Un altro grande affresco americano, vivo di vita vera.
25/02/2015