Il wall-of-sound post-Phil Spector che avvolge con muraglie di tastiere e percussioni brasileire l’ode “Mine vaganti” e la ninnananna Gino Paoli-esca di “Mata Hari”, cortesia della produzione di Martin Cuman dei Non Voglio Che Clara, è il miglior biglietto da visita, o quantomeno quello più appariscente, per il debutto del genovese Mosè Santamaria, “Risorse umane”.
Che il “sound effect” ad alta definizione sia un po’ il centro, il fuoco dell’opera lo confermano anche techno-pop eccentrici, distorti ma pigolanti, come “A Nizza” e “L’altra parte della città”, con i suoi brilluccichii elettronici a imprimere sprint acidi, che oscurano o comunque confondono la fisionomia della canzone.
Ma la scrittura più genuina di Santamaria vive e lotta, comunque, in “Come gli dei”, con un ritornello annunciato da un cambio di tempo strascicato e dolente, e poi nel folk tuonante (un po’ danza, un po’ inno) di “I Love You Marziano”, nella ballata a mo’ di stornello con flauto di “I colori di Francoise”, e nel pianoforte malandrino di “Compromessi e chiacchiere” (Paolo Conte via Dino Fumaretto), con un ritmo quasi ballabile.
Le ultime canzoni perdono un po’ in magia, ma intatta rimane la fede del cantautore in una specie d’impressionismo-canzone - refrain mutanti, soundscape elettronica che parla quasi più delle liriche, bilanciamento tra mestizia e cantabilità - che lo pone a una certa distanza dalla sua generazione (alla maniera di Gerardo Attanasio). Diversi momenti godibili, con una riflessività profonda, e poi qualche (perdonabile) concessione all’intellettualismo letterario. Co-scritto con lo stesso Cuman (anche a basso e tastiere) e Marcello Batelli (anche chitarre). Titolo stilizzato, alla maniera della moda degli hashtag, in “#RisorseUmane”.
19/12/2015