Il trio d’improvvisatori cosmici dei St. Pangolin si forma a Catania nel 2014, e verso la fine del medesimo anno incide in presa diretta le quattro improvvisazioni collettive fotografate nel primo loro (doppio) omonimo “St. Pangolin”.
I minutaggi, tutti colossali, sono in crescendo. I riferimenti si sprecano, dagli Hash Jar Tempo agli Everlovely Lightningheart.
La prima (17’16”) propala onde malefiche adornandole di tonfi e rintocchi e miasmi, mentre l’elettronica “canta” acida e straziata come una strega sotto elettroshock. Lo svolgimento è statico alla “Metal Machine Music” di Lou Reed, ma con sommovimenti dinamici di anti-contrappunto e una loro idea di ritmo. L’intento è comunque stravolto in senso, insieme, danzante e astratto, finché le componenti entrano in collisione di dissonanza, in un caos rovente figlio bastardo di un brano bastardo come “European Son” dei Velvet Underground (ma anche del più terribile dark-folk).
La seconda (20’45”) attacca con dei riverberi suonati a mo’ di martelli pneumatici, mentre un filo di feedback Jimi Hendrix-iano divaga in più direzioni fino a diventare mostruoso. L’insieme suona come una concertazione dei Throbbing Gristle, ma con ancor meno spina dorsale armonica. Quando sembra sul punto di spirare, l’atmosfera si arroventa di nuovo attorno alle urla degli strumenti, fino a farli esalare in accordi immani.
Nella terza (21’59”) si apre uno scenario insieme uguale e diverso, supremamente dissonante, fatto di glissandi di violino in una bruma di schiuma elettronica, con trapani e seghe elettriche, che si sgretola in nuove cacofonie oscillanti e galattiche (e ogni tanto qualche frase pseudo-melodica dispersa). Tutto capitola in turbine e vortici imbevuti in un clima orripilante.
La quarta copre un’ora spaccata. Un caos assordante collassa subito a livello microscopico, gravitando e poi raddensandosi in una mitragliatrice fotonica. Il paesaggio è sempre più densamente cosparso di terrore, un terrore che le distorsioni urlate, a turno, volgono a pura ipnosi “aborigena”. A 35’ ne rimangono solo gli echi, scanditi da campane a morto. Un’impalpabile pulsazione elettronica apre poi una landa sci-fi, dove peraltro compare l’unico attimo di armonia tradizionale (un timido strimpellio psichedelico). Gli ultimi 20 minuti - più che un normale decrescendo - sono un lungo e meticoloso smontaggio teatrale delle quinte scenografiche fin qui imbastite.
L’opera di Claudio Palumbo (chitarra, elettronica), Simona Strano (chitarra) e Davide Ianniti (violino e oggetti, già nei Loveless Whizzkid), per il modo in cui maciulla e cannibalizza i luoghi comuni tipici del genere (o dei generi), è un classico del post-moderno. Con una confezione spartana (figlia di quella dei primi Faust e non solo nell’apparenza), l’assenza dei titoli, le durate estenuanti, la temperatura costantemente al calor bianco, la registrazione istantanea senza ripensamenti e la sparizione delle singole personalità, suona anche come un feroce e monumentale antidoto al consumo di massa. Secondo parto della siciliana Hopeful Monsters, dopo gli Stash Raiders.
05/08/2015