Sembrava destinato a non lasciare alcuna traccia, "The Curse Of Love", il piccolo tesoro ritrovato dei Coral, risalente alla nebulosa fase di passaggio in cui nacque anche il gioiellino "The Invisible Invasion". Aveva le stimmate dell'uscita anomala ed estemporanea, ma qualche strascico nei suoi autori - maturati, al momento del lancio - deve averlo lasciato eccome. Prova ne è il nuovo passo di un'avventura discografica sin qui ineccepibile, quel "Distance Inbetween" che le ormai ex-promesse del Merseyside hanno registrato assieme a Richard Turvey, in quel di Liverpool, alcuni mesi fa.
Il tono, la malia e l'abbandono al disincanto restano in effetti i medesimi di quella raccolta, con il quintetto che bada a riposizionarsi dalle parti di uno psych-rock appesantito, viscoso e sinistro, organi funerei a profusione e un James Skelly oscuro maestro di cerimonie, come se i Wolf People si cimentassero con i brani dei Black Heart Procession di "Six". "White Bird" e "She Runs The River" lo dicono chiaro e tondo, e nell'assortimento di aromi ecco balenare l'espressionismo ancestrale, medievaleggiante, degli ultimi Midlake, tra farfisa virati al torbido, chitarre lasciate a fermentare e litanie orientate a un perenne altrove, un tempo che sembra congelato in una dimensione sospesa, impenetrabile.
I Coral, più che chiudersi nel consueto eremo da contemplativi passatisti, allestiscono una personale distopia dell'inquietudine, un tantino claustrofobica ("Chasing The Tail Of A Dream") e nondimeno convincente. I ritagli della polverosa meraviglia di ieri hanno lasciato il campo a questo rosario di minacciose evocazioni in presa diretta, sorta di liturgia ritmica ossessiva o di infezione ritornante. "Beyond The Sun" è una paginetta mesta e dal modesto trasporto. Il sole evocato dal titolo è regolarmente gravato da velature. Regala scorci anche fascinosi (come pure la successiva "It's You") ma proprio non ha modo (né interesse, a dirla tutta) di scaldare. Discorso analogo vale per quello al crepuscolo della title track, con Skelly impegnato in un superbo crooning di marca doorsiana. Man mano che si avanza, guadagna credito l'impressione di un album compassato e non di rado decadente, la cui indubbia coerenza espressiva può essere letta, secondo i gusti, come un merito o un limite sostanziale.
Con "Million Eyes" un po' di luce comincia a filtrare, ma la rifrazione falsa le prospettive. La visione esce deformata mentre il nuovo sound robusto, ricco di innervature, limita al minimo le scorie emotive quasi si trattasse di un monolite impassibile. Lo schema si ripete subito prima del congedo, in "Fear Machine", quando il frontman torna a evocare lo spettro di Jim Morrison giusto per lasciarlo fluttuare e sparire in un sottile vortice di apatia. Il risultato, ordinato nella sua regolarità, riesce insomma sanguigno e nel contempo (volutamente) algido. A regalare scampoli d'espansività, o quantomeno un'illusione di calore, è il singolo "Miss Fortune". La suggestione di un disco distante (quando non scostante) non viene comunque meno, così gli esercizi di virtuosismo elettrico affidati alla new entry Paul Molloy (già negli Zutons) optano per un incanto misurato più che per la fregola delle seduzioni ruffiane. Il mestiere di una band dalla competenza e dall'inventiva incontestabili non manca di farsi apprezzare, ma per una volta tocca archiviarlo alla voce "compensazione".
Le peculiarità sonore di "Distance Inbetween", i suoi cupi automatismi, quell'esplosività trattenuta o il brio volturato a forza in tonalità seppiate, ad ogni modo non lasciano indifferenti. Si impongono piuttosto come abito prominente, la fotografia indimenticabile della band inglese a maturità ormai acquisita.
11/03/2016