Nasce sotto il forte segno del numero che lo contraddistingue il nuovo lavoro di Pall A. Jenkins e soci: sesto album, pubblicato il sei ottobre e intitolato semplicemente "Six", quindi con un esplicito ritorno della band californiana alla numerazione progressiva degli album, interrotta dopo i primi tre. Per quanto si tratti di un elemento meramente esteriore, il suo carattere simbolico non è marginale per una band da sempre adusa a permeare le proprie opere di misteriose tinte noir, benché mai connotate da espliciti riferimenti esoterici.
La ripresa della numerazione stabilisce quindi un emblematico trait d'union con "1", "2" e "3", marcando altresì una cesura rispetto ai due mediocri album precedenti, nei quali i Black Heart Procession avevano smarrito parte del cupo lirismo che li aveva contrassegnati ("Amore Del Tropico") e sembravano quindi transitare ormai pigramente verso una sorta di neutralizzazione del loro stile consolidato in una chiave vagamente indie-rock ("The Spell"). Mentre appunto tali segnali potevano lasciar presagire l'inaridimento della vena creativa di Pall A. Jenkins, "Six" rappresenta una sorta di ritorno alle origini, che trova nel suo contenuto fedele corrispondenza alle modalità di denominazione.
In questo loro sesto disco, i Black Heart Procession raccolgono tredici ballate nelle quali si manifestano ancora discreti sprazzi di una classe non scalfita dal trascorrere del tempo, ma anzi gestita con padronanza e convogliata in un'ampia galleria di brani che rimandano ai loro momenti più fulgidi, adesso amalgamati a quell'attitudine a melodie più easy dimostrata nel recente passato.
Ne risulta un lavoro equilibrato, nel quale anche i pezzi dall'impatto più immediato, quali "Witching Stone" e l'indovinato singolo "Rats", presentano un andamento melodico semplice e vagamente corale.
Benché sia ancora presente qualche retaggio dell'incertezza degli ultimi due album, riscontrabile in particolare nei ritmi incalzanti di "Suicide" - quanto di meno adatto al songwriting di Jenkins - "Six" rivela gradualmente una lunga serie di "appunti dal sottosuolo", che seguono alla perfezione il canovaccio di atmosfere torbide, melodie fluide e arrangiamenti venati di un'oscurità decadente e raffinata.
Scorrono così brani dal passo cadenzato e claustrofobico ("Wasteland", "Heaven And Hell") e ballate dall'ampio respiro ("All My Steps", "Forget My Heart", "Liar's Ink"), alle quali Jenkins applica con consumata esperienza il suo inconfondibile crooning, ristabilendo un legame col Nick Cave più romantico e con le malinconiche pennellate da camera dei Tindersticks.
Ma sono i tre pezzi che vedono la preponderante presenza del piano a sfiorare le vette della band di San Diego, che torna a evocare demoni al solito tutti racchiusi nelle profondità dell'animo umano: così, l'iterazione in crescendo del mantra "don't say a word, just disappear with me" dell'iniziale "When You Finish Me" suona quasi come un'invocazione, un manifesto programmatico, o piuttosto un avvertimento che l'antico spirito non è ancora scemato. La sensazione viene poi confermata dalla speculare piéce pianistica del brano conclusivo, e dell'intensità tenebrosa di "Drugs" (non a caso sesta traccia del lavoro), ballata accorata e struggente come dalla voce di Jenkins non se ne sentivano da tempo.
Eguagliare il fascino decadente e la cupa introspezione di album quali "2" e "3" non sarebbe missione facile per nessuno, né del resto risulta fosse questo l'obiettivo dei Black Heart Procession; di certo, però, "Six" testimonia lo stato di ispirazione di una band ritrovata, ancora capace di regalare godibili ballate virate in tonalità seppia, tanto inquiete quanto raffinate.
L'importante, di qui in avanti, è non smettere nuovamente di contare...
06/10/2009