Wolf People

La sensazione, ascoltando quest’ultimo disco dei Wolf People, è che “Fain” sia l’album che Jack Sharp ha da sempre voluto fare. Un po’ come i Midlake, che sono partiti dai Fleetwood Mac per arrivare ai Jethro Tull, i Wolf People rielaborano a questo stadio più avanzato della loro carriera il patrimonio culturale della musica tradizionale britannica, arrivando a suonare come i Pentangle, o i Fairport Convention, passati attraverso il prog e l’hard-rock, così come gli Hexvessel sono contaminati col neo-folk scandinavo.

Nei Wolf People da sempre è presente una componente quasi ludica, nell’arrangiamento e nella composizione, un modo ironico di celebrare i miti del passato (si ricorda il riff di flauto di “Tiny Circle” in “Steeple”) che li rende possibili contemporanei, e non mediocri tributari.
Questa attitudine si trasforma in un groove (“Athol”) necessario ad alleggerire le litanie di Sharp e il contesto più “hard” che caratterizza quest’ultimo “Fain”: riff esplosivi, serpeggianti in cascate di note, si innescano in bend animaleschi e sfrondate d’accordi (“NRR”, che sembra risuonare sul prato di Woodstock).

È così che anche nelle tracce più lunghe il disco suona scorrevole, sempre in movimento verso una meta indecifrabile, in continua diversione dall’obiettivo. Bello, in “When The Fire Is Dead In The Grate”, il dialogo tra il gorgheggio medievaleggiante di Sharp e la jam strumentale, che, dopo il rodaggio iniziale, fatto di sgasate e inchiodate, si manifesta in una sfrenata danza caleidoscopica. Lo stesso si può dire della progressione voodoo di “Hesperus”, nell’arioso racconto di depravazione di “Thief”.

Registrato in un periodo di eremitismo forzato (anche dalla pioggia incessante che ha accompagnato le registrazioni), “Fain” è un altro buonissimo disco di una band che non ha più niente da dimostrare, prima di tutto a sé stessa.

30/04/2013