Tutti attendiamo il momento in cui potremo abdicare, svestirci di questi abiti da re, abbandonare il trono di queste vite.
Nessuno vuole le vesti del re. Tutti vogliamo essere nudi l'un l'altro, perché è il modo migliore per dare se stessi.
(Leonard Cohen, 1992)
Hinneni,
hinneni. Parole antiche, parole che vengono da lontano. Dalle labbra di Abramo, dai rotoli della Torah. Da una voce arrochita dalle stagioni, scavata dal mestiere di vivere.
Quando non aveva ancora quarant'anni,
Leonard Cohen aveva raccontato il sacrificio di Isacco attraverso gli occhi del figlio, della vittima predestinata. "Story Of Isaac", si intitolava quella canzone, e aveva l'aspetto di una profezia della violenza dei tempi. Sulla soglia del grande mistero, il suo sguardo è diventato quello di Abramo. Quello del padre che affida completamente se stesso:
hinneni, eccomi.
Consonanze del destino: proprio intorno a quella parola, un altro autore ha costruito negli stessi mesi il suo affresco letterario più ambizioso. Di Cohen potrebbe essere il figlio, eppure sarebbe difficile immaginare una sintonia più profonda. Nel suo "Eccomi", Jonathan Safran Foer parla di essere padri e di essere figli, di appartenere a un popolo e di appartenere a una famiglia. E, al centro di tutto, c'è sempre la risposta di Abramo. "Non dice: 'Che cosa vuoi?'. Non dice: 'Sì?'. Risponde con una dichiarazione: "Eccomi". Qualunque cosa Dio voglia, Abramo è completamente presente per lui, senza condizioni o riserve o necessità di spiegazioni".
"I'm ready, my Lord", mormora Cohen nel primo brano del suo ultimo disco. In una grigia mattina d'autunno, quel sussurro è diventato un addio. La verità della
notizia che gli occhi fissano increduli su uno schermo. Ma non gli si renderebbe giustizia, a considerare quelle parole solo come un commiato. Dire "Eccomi" è molto di più, ci ricorda Safran Foer: è ciò che più di tutto definisce la nostra identità. È essere completamente presenti di fronte alla realtà, anche quando la sua domanda sfugge alla comprensione. Perché "non puoi impedire alle cose di succedere, puoi solo scegliere di non esserci".
Leonard Cohen ha scelto di esserci fino alla fine. Il soggiorno, nella sua casa di Los Angeles, si è riempito di chitarre acustiche, tastiere,
laptop. E, al centro, un vecchio microfono Neumann, per raccogliere ogni respiro del vecchio maestro. Sveglia alle prime luci dell'alba, lavoro senza distrazioni. Il conforto dello spirito, la fatica del corpo. Già all'epoca di "
Popular Problems" aveva una raccolta di nuove canzoni nel cassetto. Ci ha lavorato intensamente per un anno insieme a Patrick Leonard, poi le sue condizioni hanno avuto un improvviso peggioramento. "La situazione era buia, la sofferenza acuta, il progetto era abbandonato", ricordano le note del nuovo disco. Ed è allora che gli si è fatto vicino il figlio Adam.
Non avevano mai lavorato insieme: troppo ingombrante l'ombra di un padre del genere, per un figlio deciso a seguire le sue orme lungo il sentiero impervio del cantautorato. Ma stavolta le cose erano diverse. "Ha capito che il mio recupero, se non la mia stessa sopravvivenza, dipendevano dalla possibilità di rimettermi al lavoro". Quando aveva diciassette anni, Adam era rimasto per mesi in coma dopo un terribile incidente stradale. Il padre trascorreva le giornate accanto al suo letto, leggendogli versetti della Bibbia. La vita a volte gioca a invertire i ruoli: "Adam ha preso in mano il progetto, mi ha sistemato su una poltrona ortopedica per permettermi di cantare e ha portato a termine queste canzoni incompiute".
Il brano chiamato a dare il titolo al quattordicesimo album di Cohen, "You Want It Darker", comincia con le voci di un coro. Non il consueto controcanto femminile, ma il coro della congregazione Shaar Hashomayim, la più antica sinagoga aschenazita del Canada. La sinagoga della sua famiglia. Ed ecco il
groove pulsante del basso stendere il tappeto per quell'inconfondibile baritono. Viene da terre d'ombra e solitudine, viene da tempi di silenzio e desiderio.
Ci sono prigionieri condotti all'esecuzione, c'è una fiamma lasciata spegnere nella notte. Le angosce di una vita sembrano nulla di fronte al travaglio del mondo: "I struggled with some demons/ They were middle-class and tame". Il domani oscuro di "The Future", ormai, è diventato il presente. Ma da dove viene il male che avvelena la storia, se non dagli abissi del cuore dell'uomo? "If thine is the glory/ Then mine must be the shame". Le voci della sinagoga intonano insieme a lui l'inizio del
Kaddish: "Magnified and sanctified/ Be Thy Holy Name". La preghiera della lode, la preghiera del lutto. Un inno funebre a se stesso, o forse all'umanità. "I'm ready, my Lord".
Occorreva l'amore di un figlio, per restituire a Cohen il rigore del classico. E che "You Want It Darker" sia destinato a occupare il posto di un classico lo si capisce già dall'essenzialità della copertina, da quel gioco di contrasti in bianco e nero che chiama in causa direttamente il passato. Il capitolo finale di una trilogia che lascia da parte i residui orpelli di "Popular Problems", per raggiungere una sobrietà ancora più misurata di quella di "
Old Ideas". L'unica cornice davvero consona alla voce di Cohen: "I miei arrangiamenti devono contenere qualcosa di sbagliato, essere indifesi, sconfitti, a pezzi, semplici, umili. Altrimenti sono io a non trovare più posto, a non riuscire a respirare".
Dal pianoforte di "Treaty" si leva un fremere di archi che anticipa la ripresa orchestrale posta in chiusura del disco. "I wish there was a treaty/ Between your love and mine", invoca Cohen. Non con la rassegnazione del compromesso, ma con la sofferta consapevolezza dell'irriducibilità dell'altro a qualsiasi conquista. La collaborazione con Patrick Leonard lascia in eredità i tratti musicali più elaborati, dall'organo che introduce il gospel in chiaroscuro di "If I Didn't Have Your Love" al lirismo gitano di "It Seemed The Better Way", mentre l'unico episodio firmato insieme a Sharon Robinson, "On The Level", contribuisce ad alleviare la trama dell'album con le sue tonalità soul.
È un disco fatto di congedi, "You Want It Darker". Impossibile ascoltarlo prescindendo dal fatto che contiene le ultime parole di Leonard Cohen. Impossibile soprattutto perché non c'è verso che non sia permeato dall'intima consapevolezza della fine. È il testamento di un uomo pronto a fare un passo indietro rispetto al trasporto della passione ("I turned my back on the devil/ Turned my back on the angel too", confessa in "On The Level"), un passo indietro rispetto alla battaglia quotidiana ("I do not care who takes this bloody hill", proclama in "Treaty"). Un passo indietro per contemplare finalmente il disegno delle cose, non per rinunciare a possederle. Tra nostalgici riverberi
twang e ricami di
pedal steel, "Leaving The Table" lo riassume con la semplice forza di un'immagine ("I'm leaving the table/ I'm out of the game"), mentre Cohen si ritrova a osservare con distacco il gioco della commedia umana.
Uno dopo l'altro, cadono tutti i fardelli inutili. Ombre di donna e rovine di centri commerciali, cicatrici di ferite e certezze consumate. Sulle partiture da camera di "Steer Your Way", il vecchio
chansonnier le attraversa come se fossero vestigia di un altro tempo, di un'altra vita. "Year by year/ Month by month/ Day by day/ Thought by thought". A restare, più di tutto, è il bisogno di portare a compimento ciò che si è iniziato. Ed è proprio questa, in fondo, l'essenza di "You Want It Darker".
"I'm traveling light/ It's au revoir". Il viaggio è lungo, il bagaglio leggero. Il coro di "Traveling Light" risuona come il canto lontano delle donne di uno
shtetl, come la memoria di una danza
klezmer sulle corde del violino, una "Dance Me To The End Of Love" offerta in dono a
Matt Elliott. Nella valigia resta solo l'indispensabile, mentre quel
crooning grave come il tempo declama l'ultimo arrivederci.
Poche settimane prima dell'addio, Cohen ha confidato a David Remnick del New Yorker i versi su cui stava ancora lavorando. A occhi chiusi, in un sussurro. "Listen to the mind of God, which doesn't need to be". La tradizione ebraica la chiama
bat kol, la voce dal cielo: "Un'altra realtà che canta sempre al tuo orecchio dal profondo, anche se per la maggior parte del tempo non sei grado di decifrarla". A volte, esserci non significa altro che ascoltare. E non c'è voce più grande di quella di chi ha imparato ad ascoltare. "Listen to the mind of God/ Don't listen to me".
14/11/2016