Leonard Cohen

Popular Problems

2014 (Columbia)
songwriter

Amore, politica, destino. Non sono queste, in fondo, le questioni intorno a cui ci dibattiamo ogni giorno? “Popular Problems”, li chiama Leonard Cohen. I problemi di cui è fatta la trama della vita, quelli rispetto a cui nessuno può dirsi estraneo. Non basta l’età a renderli meno impellenti, sembra voler dire il neo-ottuagenario chansonnier canadese. Semmai, permette di affrontarli con una saggezza più disincantata nello sguardo.

Ed ecco allora “Popular Problems” fare la sua comparsa, quasi a sorpresa, ad appena un paio d’anni di distanza da “Old Ideas”, che aveva interrotto nel 2012 il lungo silenzio discografico di Cohen. L’ombra nera e rossa che appare nel collage stilizzatissimo della copertina è la stessa che campeggiava anche nell’album precedente. Cohen, però, non è più seduto in un angolo del suo giardino: è di nuovo in piedi, in cammino, appoggiato a un elegante bastone da passeggio. Pronto per tornare a immergersi nella realtà.

 

Quasi a volersi giustificare per la passata assenza dalle scene, il beat insistente di “Slow” apre il disco con un elogio della lentezza ironicamente allusivo, mentre l’organo volteggia verso tonalità blues: “It’s not because I’m old/ And it’s not what dying does/ I’ve always liked it slow/ Slow is in my blood”. Una lentezza ormai proverbiale, di cui anche in “Popular Problems” non mancano gli esempi emblematici. Basti pensare che l’idea di “A Street” risale ai giorni immediatamente successivi all’11 settembre, mentre la lavorazione di “Born In Chains” si è protratta addirittura per quarant’anni: “L’ho riscritta moltissime volte per adeguarla ai cambiamenti nella mia posizione teologica”, confessa Cohen con il consueto humour.

È lui stesso, però, a dirsi sorpreso della velocità con cui il nuovo disco ha preso forma, tanto da spingersi ad anticipare di avere addirittura un altro album già pronto per metà. L’accelerazione è dovuta soprattutto alla collaborazione con Patrick Leonard, produttore di “Old Ideas” e ora accreditato nientemeno che come coautore della quasi totalità dei brani di “Popular Problems”. Da lui derivano, per ammissione diretta di Cohen, la maggior parte delle idee musicali del disco. Ed è proprio questo, in realtà, il punto debole del nuovo lavoro.

 

Le atmosfere di “Popular Problems” crescono in varietà, ma – soprattutto nella parte centrale del disco – non sempre riescono a replicare fino in fondo l’equilibrio di “Old Ideas”. È il caso delle movenze sintetiche di “Nevermind”, con i suoi inserti arabeggianti, o delle accelerazioni country dei cori di “Did I Ever Love You”, che finiscono per smussare gli interrogativi posti dal timbro ringhioso di Cohen. Gli arrangiamenti di Patrick Leonard sembrano adattarsi meglio agli episodi più lineari (come le coloriture soul di “My Oh My”), mentre gli intermezzi di fiati e tastiere di “A Street” restano ai margini del recitativo asciutto che guida il brano.

È quando il contorno si fa più sobrio, allora, che i versi di Cohen riescono a risuonare con più profondità. A partire dal singolo scelto per anticipare l’uscita del disco, “Almost Like The Blues”, con un tappeto di percussioni e una magmatica linea di basso ad accompagnare il tocco del pianoforte e i controcanti di Charlean Carmon. Lo scenario è quello di un presente brutale, fatto di villaggi in fiamme, stupri e assassinii. Un presente in cui la tentazione di distogliere lo sguardo suona più che mai profetica: “I couldn’t meet their glances/ I was staring at my shoes”.

 

“Essere un songwriter è come essere una suora: sei sposato con un mistero”, riflette Cohen con un sorriso. Così, accanto alle contraddizioni dell’amore (il monologo allo specchio di “Did I Ever Love You”) e della politica (la vibrante apostrofe post-Katrina di “Samson In New Orleans”), è il problema del destino a dominare ancora una volta le sue canzoni. Allo scetticismo dei sapienti, Cohen contrappone la semplicità dei peccatori: “There is no God in heaven and there is no hell below/ So says the great professor of all there is to know/ But I’ve had the invitation/ That a sinner can’t refuse/ And it’s almost like salvation, it’s almost like the blues”.

Così, le acque del Mar Rosso si aprono sulle note del gospel liturgico di “Born In Chains”, invocando una liberazione dalla schiavitù capace di abbracciare “la misura di tutte le misure”. E il canto di Davide torna a riecheggiare nell’epilogo di “You Got Me Singing”, incurante delle infinite versioni di “Hallelujah”, per affidarsi agli accenti folk del violino di Alexandru Bublitchi: “You got me singing even though it all looks grim/ You got me singing the Hallelujah hymn”. Non conta la durezza dei tempi: nulla può mettere a tacere il cuore, quando sta di fronte al Signore della Canzone con il proprio canto sulle labbra.

23/09/2014

Tracklist

  1. Slow
  2. Almost Like The Blues
  3. Samson In New Orleans
  4. A Street
  5. Did I Ever Love You
  6. My Oh My
  7. Nevermind
  8. Born In Chains
  9. You Got Me Singing

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