Come sfruttare le molteplici esperienze accumulate nel corso di una vita per edificare le fondamenta della propria carriera in solitaria, nell'ottica di un percorso che sintetizzi la complessità del tracciato precedente e allo stesso tempo si ponga al di sopra di questo, come un tutto che viaggia ben oltre la somma delle sue parti. In estrema sintesi, è questo il portato concettuale, più o meno inconscio, che si cela dietro all'omonimo album d'esordio di Kelly Lee Owens, giunto dopo una breve ma significativa trafila di singoli ed Ep, immediatamente assurto a uno dei dischi di punta dell'annata in corso.
Naturalmente non si tratta affatto del primo full-length che traduce in una visione unitaria ed efficace un ampio bagaglio di incontri ed esperimenti, tuttavia sono ben pochi gli album che accompagnano a tale visione una personalità forte e decisa, che sappia staccarsi del tutto dalle premesse e brillare di luce propria. Con un passato da bassista e backing-vocalist nella band noise-pop/shoegaze History Of Apple Pie, ed esperienze da collaboratrice in album di Daniel Avery e Ghost Culture, conosciuti mentre lavorava in un negozio di dischi di Londra, la producer gallese vanta un curriculum realizzativo, per quanto succinto, comunque significativo della varietà di stimoli e influenze che ne hanno contraddistinto il percorso, e che inevitabilmente ha plasmato in maniera decisa le tracce del disco d'esordio. Con un'ossatura ritmica e compositiva che percorre il sottile filo che separa ambient, techno e house, e vocalizzi sfuggenti dagli evidenti richiami dream-pop (il nome di Elizabeth Fraser il primo a fare il giro della rete), l'opera prima di Lee Owens impronta un tragitto suggestivo e dalle forme minimali attraverso un onirismo algido e allo stesso tempo suadente, in cui atmosfera e connotati da club-music si danno il cambio con sussiego e compostezza, bilanciandosi con una semplicità sorprendente.
Semplicità, in questo senso, è la parola chiave. La si può ritrovare ovunque, dalle scelte compositive e di beatmaking passando per le linee vocali e le aperture melodiche, laddove esse provano a mettere in mostra la natura più pop della creatività di Lee Owens. Senza la necessità di un corredo sonoro troppo stratificato, limando i cambiamenti e le variazioni allo stretto indispensabile, i brani dell'album si perdono in un flusso ipnotico dolcemente sospeso tra le cullanti interpretazioni della producer (spesso e volentieri utilizzate come ulteriore trucco sonoro o addirittura bordone ritmico, vedasi il loro impiego nell'Idm atmosferico di “Keep Walking”) e le algide increspature della musica, che sfumano anche l'andamento più dinamico e i bpm più consistenti. Vero è che il discorso si fa più avvincente laddove il dialogo tra le parti si fa più serrato e contrastato, laddove il supporto atmosferico fornisce un contesto invece che essere l'elemento preponderante della composizione, tuttavia si riesce a distinguere momenti in cui la cifra stilistica maggioritaria del disco sa far valere la propria peculiarità, senza scadere nel sottofondo indistinto o nel filler buono giusto per la comparsata.
Accanto quindi a quei momenti in cui le nervature tech-house godono di una maggiore libertà di manovra, indovinando notevoli suggestioni club-oriented (i bassi sommersi di “Anxi.”, con una Jenny Hval perfettamente a suo agio sopra un potente assetto techno; “Evolution”, in cui l'impianto ritmico approfondisce ulteriormente il lato più aggressivo e martellante della producer, parando nei dintorni ripetitivi di una Helena Hauff o dei techno-master più krauti), Lee Owens scova la sua forma migliore in quei frangenti in cui la voce possiede una più ampia centralità espressiva, smarcandosi da fattezze eteree fin troppo esasperate. È il caso dell'iniziale “S.O”, in cui la lenta progressione post-house sorregge quella che a suo modo potrebbe essere la melodia di una Frankie Rose riscopertasi autrice più elettronica che mai, ma anche di “Lucid”, che al netto dei synth taglienti in stretta fascia GusGus scova una delle più efficaci performance della produttrice, sempre preda delle sue divagazioni onirico-ambientali ma comunque dotata di una sua speciale concretezza interpretativa.
Per il resto, è evidente la deriva verso un' a-verbalità fin troppo abusata nel nostalgico universo dream-pop (come quella che adorna la lunga divagazione ambient-dub della conclusiva “8”), ma nel complesso il suo impatto non riesce a guastare definitivamente nemmeno il più debole tra i brani, mantenendo la personalità espressiva tutto sommato su un livello medio più che dignitoso.
Alla prima prova solista, Kelly Lee Owens ha già piazzato una base solida su cui erigere una carriera dalle potenzialità assicurate e dalle qualità alquanto peculiari. Un pizzico di auto-indulgenza in meno nell'eccedere in certi stilemi, e il gioco è fatto. Il talento e il carattere non mancano affatto.
08/08/2017