Nella luminosa stagione indie tricolore degli anni 90 ha brillato, per poco, anche la stella degli Üstmamò, legata alla costellazione Cccp-Csi e capace di portare in Europa l'Emilia paranoica del post-punk attraverso intriganti scorciatoie elettroniche, che conducevano dritte alla mecca trip-hop di Bristol. Ora, di quella peculiare esperienza, resta una scheggia impazzita, tornata di recente addirittura nel solco di uno spiazzante western blues, un'incarnazione di dubbia autenticità, priva com'è del suo inconfondibile timbro vocale, quello di Mara Redeghieri. La pasionaria dell'Appennino reggiano, infatti, ha salutato la compagnia nel 2003, rifugiandosi da allora nel suo eldorado di montagna e sbarcando il lunario come insegnante in una piccola scuola di paese. Poi, sei anni fa, la scintilla che ha riacceso la creatività sopita: un documentario di Marco Mensa sui canti popolari dell'Appennino, "sulle nostre tradizioni, sulle radici di ciò che per noi abitanti di queste valli è qualcosa di più che semplice musica di una volta", come ha raccontato Redeghieri in un'intervista a Leggo. Così, ha deciso di riprovarci. Per niente facile e poco allineata come sempre. E, per questo, "Recidiva".
Le undici canzoni del disco, prodotte da Stefano Melone (già al fianco di Fabrizio De André, Ivano Fossati e Fiorella Mannoia), compongono un puzzle di storie e fiabe dolceamare, condite spesso da una sferzante ironia. A cominciare dal singolo "Augh", invettiva a ritmo tribale contro il capitalismo selvaggio, scandita a mo' di slang da pellerossa maccheronico ("noi avere casa, lavoro, badante cameriere, un bypass nel cuore e un piccolo tumore/ quindi noi avere tutti i diritti di godere/ noi volere bene a badante cameriere, come a nostro cane, a seconda dell'umore/ basta stringere corda al collo/ senza esagerare"). Una gag spassosa, che smaschera l'ignoranza sottesa all'avidità e al razzismo, resa poi plasticamente da un buffo videoclip in cui Mara, armata di arco e frecce, trafigge un pupazzo con le sembianze di Donald Trump mentre insegue un sudamericano. E all'ineffabile presidente degli Stati Uniti è riservata anche la bordata funk fin troppo esplicita (e volgarotta) di "STrump", con tanto di pupazzo nel booklet e nel videoclip, e le parole "Gomo truzzo ciocco tamarro" nella prima strofa.
Sulla stessa falsariga, ma con un bel po' di amarezza in più, l'altra cantilena elettrica di "UomoNero", in cui il tema lacerante dell'immigrazione è raccontato attraverso un gioco di contrasti non solo cromatici ("ecco che arriva l'UomoNero/ Faccia nera di cioccolata/ Ecco è arrivato l'uomo nero/ nero di seppia in nera giornata/ Cielo nero, umore/ giorno nero, gatto nero/ bestia funesta, pecora, pulcino"), che sfociano in un'apertura radiosa di archi e in un'immagine poetica ma tragicamente attuale: "Rannicchiato in barca/ nella notte scura/ sempre più frastuono del mare che urla/ Trema UomoNero/ le onde crudeli/ portano lontano in un posto strano".
Recidiva, per l'appunto, a differenza del rinnegato Ferretti, Redeghieri riesce a conservare sempre quel suo approccio stranito, quasi fanciullesco, anche quando si trova a maneggiare materiale così grave e drammatico. Vola sui brani con la stessa leggerezza che aveva fatto la fortuna di prodezze targate Üstmamò come "Memobox" o "Canto del vuoto". Di quell'esperienza restano evidenti alcuni legami - dal battito trip-hop alla propensione alla narrazione teatrale e alla filastrocca - ma si perde per strada, forse, un po' di brillantezza melodica, di orecchiabilità pop. Si conferma però il talento vocale di una interprete decisamente particolare, con quel suo modo di appoggiare le parole (sublime, ad esempio, nel numero alla Bjork tutto archi ed elettronica di "Anni luce"), di lanciarsi in improbabili scioglilingua ai limiti del rap, o di mostrarsi nuda, in recitati senza orpelli (la title track) o a tre voci ("Nella casa").
Una "Romantica siderale", come si autodefinisce in una delle tracce più visionarie e liriche, opposta all'aridità dei nuovi mostri del capitalismo, quelli che hanno "un deserto al posto del giardino/ un lucchetto per ogni stanzino/ tutto chiuso e ben sigillato/ sotto vetro dentro un carrarmato" (il reggae di "Cupamente").
Un disco inattuale, come sottolinea la cartella stampa, a tratti un po' naif come la sua protagonista, eppure preziosamente agganciato al presente, con il suo disperato spirito di resistenza e la sua ironia disarmante. In ogni caso, un gradito ritorno.
02/09/2017