"A Desire For Light", recitativo triste e turbolento per rasoiate di chitarra e batteria tribale, si placa per dare spazio all'aria ferita Tori Amos-iana della cantante; le due dimensioni, quella furibonda e quella leggiadra, infine s'incontrano e i toni si alzano in una torbida drammaturgia elettrificata. "Dull Gret" è dapprima una fragile elegia di tre-accordi-tre, vagamente alla "High Tension House" dei Dadamah, ma poi la struttura richiama quella propulsiva e ribattente della "Paint It, Black" degli Stones, esplode in nuovi vortici e abbozza anche una sorta di anthem. Pur non possedendone il prodigio canoro e il corredo strumentale (e il genio), "Golden Purifier" va vicino alle migliori odi sepolcrali di Nico.
Se tanto le accensioni di hard-rock pantagruelico dei Melvins in "The Unspoiled" quanto lo slowcore forse troppo moribondo di "Seclusion" tendono a sbroccare, "Darkness" va schietta per il puro sfogo strumentale e testuale, a fiume, pur celando segretamente un tempo di salterello medievale.
Il terzetto di Brighton non fa fuoco a ripetizione: dopo il colpo gobbo di "Older Terrors" (2016) accusa il rinculo e si ripete. Tutto però fila bene, un canto aumentato sia in dramma che in rotondità timbrica, belle chitarre distorte, tonanti come non mai, e uno scavo sempre appassionato che scongiura rischi - al quinto disco lungo sono preoccupazioni anche fondate - di banalità. Ne risulta un album talvolta incline all'esclusività della sola Rachel Davies, compatto ma diseguale. La seconda parte non delude ma affatica, la prima ha gioielli galvanizzanti di cupa gloria. Ben salda anche la loro mitologia ancestrale: tra gli altri, "Dull Gret" tributa l'omonima eroina delle leggende fiamminghe.
(23/11/2018)