Nonostante il passare del tempo, le strade di Saul Adamczewski e Ben Romans-Hopcraft non si sono mai del tutto divise. La lunga amicizia dei due musicisti non è stata scalfita dalle diverse esperienze artistiche: cantante e chitarrista nei Fat White Family il primo, membro fondatore dei Childhood il secondo, i due ragazzi inglesi hanno infine trovato nel progetto Insecure Men l’occasione giusta per poter esprimere in piena libertà un proprio mondo fatto di idee, esperienze e inquietudini.
È evidente che il bisogno primario dei due musicisti era quello di invertire la rotta approcciando un diverso linguaggio espressivo. Per Romans-Hopecraft è stato più facile incrociare la musica pop, più complesso per Adamczewski il trapasso dalle destrutturazioni sonore del suo ex-gruppo alle bizzarrie melodiche di questo esordio. Ed è negli ultimi anni dell’ex-Fat White Family che va cercata la materia prima di queste undici canzoni, molte delle quali sono in parte nate nel turbolento periodo di dipendenza dalla droga e allontanamento di Saul dalla band.
Con un nugolo di melodie in stato grezzo e un riuscito percorso riabilitativo, il musicista ha trovato naturale chiedere aiuto e conforto al vecchio compagno di scuola Ben, che ha abbracciato con passione il nuovo progetto.
Resteranno deluse le attese dei fan in cerca di scampoli garage-rock: le influenze palpabili adesso sono i Carpenters, Arthur Lyman, Cliff Richard e la psichedelia, quest’ultima forse carpita all’atmosfera degli studi di registrazioni, quelli di Sean Lennon, mentre le prime session sono state effettuate nello stesso locale, il Queens Head pub, che ha visto germogliare sia i Fat White Family che gli Shame.
Avvolte in sonorità eleganti, le canzoni conservano un’anima aspra, sporca, che su sonorità in stile exotica-Martin Denny mette in fila sogni e incubi (“Subanu Nights”), accenna toni di lussuria a suono di marimba, synth e fiati (“All Women Love Me”), non disdegna altresì la sensualità del calypso (“Hearthrow”), scomodando anche l’irriverenza dei primi Squeeze in “Teenage Toy“ o il tocco rock-kitsch degli Slade in “Mekong Glitter”.
Con titoli come “Cliff Has Left The Building” e “Whitney Houston And I” è evidente la scelta del gruppo di voler giocare e dialogare con alcune figure ai confini del pop, con un esito estetico e stilistico che lascia stupiti e a volte interdetti, soprattutto se ci si sofferma sulle nostalgiche armonie quasi surf della prima o sulle sonorità soft-disco della seconda. L’esordio degli Insecure Men, pur non brillando per originalità, è un disco particolare, insolito. Saul e Ben sono due autori dallo stile personale, quasi un incrocio tra Luke Haines, con il quale condividono una vena pop anti-beatlesiana (“I Don’t Wanna Dance”) e Jacco Gardener, da cui hanno attinto quel piglio pop-psych molto romantico ed evanescente (“Buried In The Bleak”).
La parola definitiva sulla reale consistenza di questo progetto è a questo punto affidata alle esibizioni live, dove un corposo numero di musicisti (ben 11) è chiamato a trasferire sul palco le esotiche ninnananne al cardiopalma del gruppo inglese. Nel frattempo l’esordio degli Insecure Men non mancherà di stimolare la curiosità di un pubblico in cerca di sonorità quantomeno inusuali.
14/03/2018