Cavalca l’onda, batti il ferro finché è caldo, carpe diem: esortazioni sempre valide per chi ottiene i primi riconoscimenti sulla scena internazionale, obbligato alla costanza per non far perdere l’attenzione del pubblico in favore di qualche altro emergente. Vale persino – e abbastanza curiosamente – per un pianista unico al mondo e quasi settantenne, che per svantaggio geografico e una grave carenza di relazioni pubbliche è rimasto nell’ombra sino a pochi anni fa, cogliendo solo oggi i frutti del suo stoicismo umano e artistico.
Oggi l’ucraino Lubomyr Melnyk delizia le platee di tutta Europa con i suoi recital immersivi e commoventi, espressione di una sensibilità fuori dal tempo (benché inequivocabilmente contemporanea) che sembra non lasciare indifferente nessuno. È il suo momento di gloria a lungo dovuto, e perciò non è improbabile che la permanenza nel roster di Erased Tapes (escludendo la parentesi su Sony Classical di “Illirion”) sia una scelta di mera opportunità: la label inglese, che ha accompagnato Nils Frahm verso una celebrità quasi spropositata, è una sicurezza non da poco in merito a visibilità e promozione presso un pubblico ben definito ma in continua crescita – quello del neoclassicismo, per l’appunto – e al cospetto di un talento realmente singolare come quello di Melnyk chi avrebbe cuore di biasimarlo?
Sulla scia del precedente “Rivers And Streams” (2015), il nuovo Lp “Fallen Trees” torna a coniugare la poetica della continuous music all’ispirazione naturalistica: nel caso specifico si aveva già un precedente con la suite bipartita “The Voice Of Trees” per tre tube e due pianoforti, edita soltanto nel 2011 ma incisa con mezzi propri nel lontano 1985; quello datato a oggi è invece un classico “album” che porta il titolo del brano in cinque movimenti che occupa la seconda facciata.
Eccezion fatta per “Son Of Parasol”, sèguito dinamico e rigoroso di un accorato episodio di tre anni fa, “Fallen Trees” riconferma appieno (diremmo definitivamente) il percorso intrapreso da Melnyk in direzione di un afflato melodico debordante e inarrestabile, eredità di un romanticismo che ha toccato vette di paragonabile intensità forse più in letteratura che in musica. La “Barcarolle” del pianista mistico è l'ennesimo atto di abbandono totale al fluire armonico delle dita sulla tastiera, estremizzando la lezione glassiana con fitti arpeggi di velluto, limpidi e infinitamente rilucenti.
Il solo rammarico che permane all'ascolto degli ultimi lavori è la mancanza di condizioni ottimali in fase di registrazione e missaggio, come se l'intero processo fosse ancora sostanzialmente affidato ai mezzi di fortuna di Melnyk anziché a tecnici del suono esperti e coscienziosi. Una pecca che risulta particolarmente evidente nel movimento centrale della title track, dove all'apice dello sviluppo narrativo si aggiungono dei cori e un violoncello, sovrapposti in maniera tutt'altro che ordinata alla traccia principale.
Ma la dirompente forza emotiva di un simile prodigio creativo è tale da non indebolirsi nemmeno a fronte di una produzione carente: anche quando, come in questo caso, la scrittura all'origine non presenta alcuna sorpresa per chi abbia seguito il maestro ucraino negli ultimi cinque anni, il solo realizzarsi “fisico”, performativo della sua intelligenza melodica – in un intreccio tissurale dall'equilibrio incrollabile – mantiene ogni promessa e rinnova lo stupore della prima volta.
Come a dire che la “ripetizione differente” rimarrà sempre un affascinante ossimoro, indissolubilmente legato alle molteplici manifestazioni del minimalismo, corrente ormai entrata di diritto nella classicità.
13/12/2018