La carriera della prima edizione del progetto Mamuthones, ideato dall’ex-batterista dei Jennifer Gentle, Alessio Gastaldello, si chiude col quarto d’ora isolazionista post-“Ummagumma” di “More Alien Than Aliens” (2013). Ciò che era solistico, imploso, astratto e perlopiù strumentale, appare ora, in “Fear On The Corner”, cantato, bandistico, estroverso, persino carnascialesco. Più che la classica svolta pop, questa è una cesura, una reinvenzione coerente quanto spiazzante.
Da subito l’album appare come un tributo ai Talking Heads maggiormente dipendenti dal suono di Brian Eno. La tensione febbricitante delle tastiere, il batterismo tribale ma scientemente organizzato, lo scioglilingua della chitarra e soprattutto l’avvicendarsi tra strofa nervosa e refrain corale gaio fanno sembrare “Cars” e l’eponima “Fear On The Corner” delle b-side di “Remain In Light” Analogamente, le sincopi, il tempo velenosamente incalzante, il canto spezzato e stridulo, gli effetti elettronici random, in “Show Me” attingono all’universo sonico dei Pere Ubu, pur quelli meno dadaisti e più appiccicosi di “Song Of The Bailing Man”.
Cotante premesse portano anche a risultati di maggior spessore. Anzitutto la poliritmica, frenetica, cantilenante “The Wrong Side”, un conciliabolo a getto continuo. Le medesime intuizioni di “Show Me” si ampliano poi nella lunga “Alone”, in particolar modo in una sezione lisergica di richiami ancestrali a tempo disco-funk, lambendo picchi sublimi. Nell’altra estesa escursione psico-sonica, “Here We Are”, un rombo di jet si mischia a un tam-tam mentre la voce scandisce, a turno e oltremodo distorta, una formula mantrica, finché la sarabanda diventa uno show di percussioni, distorsioni e urla contorte.
Introdotto e teorizzato da un anti-remix Rolling Stones-iano che era, in realtà, poco più di un esperimento, il maxi-singolo “Symphony For The Devil” (2015), è un disco di freddo revivalismo creativo, diabolico soprattutto nelle parti di jam solistiche, non per niente la specialità dell’autore, spesso sotto forma di duelli acerrimi di chitarre: ispide, ben orchestrate e prodotte meglio, più di qualche volta peraltro sgorganti in trionfi di febbri ed estasi non distanti da Peter Green. Canto, voci e controvoci, ingorgate in profluvi di filtri elettronici, fanno al contrario da tallone d’Achille e, seppur necessari all’economia dell’opera, tendono a disturbare, alla meglio fanno il fiocchetto regalo. Ritmi convoluti e ipercinetici, così così: non brillano in spontaneità, ma nemmeno si sta fermi.
19/04/2018