Dieci anni di attività discografica per i Titus Andronicus di Patrick Stickles e Liam Betson, nome scespiriano, base nel New Jersey, ampie, esasperate, nervature folk-punk e lunghe arringhe verbali debordanti nella nevrosi. L’opera rock “Most Lamentable Tragedy” (2015) ne è il non plus ultra, l’ultimo manifesto in termini di sforzo artistico e ribadimento ampio, meticoloso e insieme delirante di un discorso che non si cura di suonare fin troppo revivalistico, fin troppo enfaticamente ribollente, se non esoso. Come se di più e meglio non si possa fare.
Disattivata, per loro stessa ammissione, la componente punk, il quinto “A Productive Cough” trova in effetti una band smarrita come non mai. Beninteso, “Number One” è un inno marziale per cui l’attuale Springsteen pagherebbe, ma stavolta, a differenza dei predecessori, si sente il peso delle parole a fiume del leader, di una verbosità certamente politica ma poco musicale; “Above The Bodega” è un mezzo pasticcio, un mezzo ibrido le cui stesse componenti sono confuse e l’eccessiva maestà (e, di nuovo, le troppe parole) in “Mass Transit Madness” sciupano un possibile richiamo a Simon Joyner. “Home Alone” persino equivoca sulle loro reali capacità, con un motto di poche parole che in “The Monitor” (2010) avrebbe saettato al fulmicotone in senso hardcore, e che qui invece si attarda per sette minuti su uno sbiadito hard-rock Neil Young-iano.
Il complesso potrebbe semmai rinascere (cioè retrocedere ulteriormente nel tempo) sotto il segno della ruralità di Band e Dylan - non per niente la cover arcinota in scaletta (brutto segno: è il brano più lungo di tutti) - anche se la canzonaccia honky-tonk sbraitata in stile pub di “Real Talk” al momento ne è solo una versione scalcagnata. Ecco allora il momento accentratore dell’opera, il faro nel viaggio di nebbia, “Crass Tattoo”, canto delle piantagioni in forma di country stentante (solo Megg Farrell al canto e un accompagnamento dimesso tra cui il cello della Scarpantoni). In confronto al resto, il più commosso omaggio al folclore americano è un capolavoro di grazia e coraggio.
Con una sezione ritmica rinnovata, e l’adozione della formula “quartetto più ospitate” (gustosa la tromba di Carter Yasutake, turnista quotato), è un disco di puro e semplice compromesso, senza grande necessità nemmeno per i fan. Malfatto e rappezzato come può esserlo un’opera che copia sé stessa a suon di passatismo a gogò, ma non privo di una sua oleografica ingenuità e avvezzo - come da loro tradizione - tanto al divertimento quanto alla riflessione. Accompagnato da un documentario di un’ora sulla realizzazione (Ray Concepcion), reperibile su YouTube.
12/03/2018