Nonostante le lodi sperticate della critica di settore, “Starspawn”, esordio sulla lunga distanza dei Blood Incantation, era tutt’altro che un disco riuscito, appesantito com’era da molti passaggi a vuoto. Cosa che non si può dire, invece, di questo “Hidden History Of The Human Race”, che toglie ogni dubbio sul talento del trio di Denver, Colorado. Intendiamoci, però: non siamo alle prese con un disco innovativo, cosa sempre più difficile da realizzare di questi tempi. Ciò che è racchiuso in questi trentasei minuti di musica è, piuttosto, un gran bel lavoro di death-metal progressivo, cui non dispiace di esibire punte di orgoglio “technical” e che, rispetto al suo predecessore, vanta sia un più sofisticato cesello melodico che una produzione più cristallina.
L’iniziale “Slave Species Of The Gods” mostra subito una poderosa combinazione di Morbid Angel, Immolation e Mithras, il che equivale a dire che progressioni rocciose e squarci di fantascienza psichedelica entrano ripetutamente in rotta di collisione. I Blood Incantation, insomma, nel ripescare (ma con intelligenza!) il suono dell’old school, si aprono a contaminazioni ricche di pathos visionario, quel pathos che in “The Giza Power Plant” strizza l’occhio persino ai primi Gorguts (a quel loro equilibrio di groove e tecnica mai fine a se stessa) e alle atmosfere mediorientali che tanto peso hanno avuto nella definizione del sound dei Nile e che, in questi solchi, denotano la volontà di bilanciare la spaventosa onda d’urto con dosi calibrate di misticismo.
Tra spazi dilatati, figure batteristiche che ne tracciano continuamente i confini e chitarre che duellano a suon di riff carichi di solennità, “The Giza Power Plant” potrebbe essere usato come manifesto del loro sound “sincretico”.
Da galassie lontanissime giunge, invece, “Inner Paths (To Outer Space)”, un ibrido di prog-rock in quota Rush, panoramiche pinkfloydiane e mastodonte death-metal, il tutto in una sorta di trasfigurazione sonora della copertina del disco, basata su un’opera realizzata negli anni Settanta dal pittore inglese Bruce Pennington. Nei diciotto minuti di (prendete fiato!) “Awakening From The Dream Of Existence To The Multidimensional Nature Of Our Reality (Mirror Of The Soul)”, la brutalità del death viene piegata in forma di suite, lanciando nella mischia arrampicate vertiginose, sprazzi di terrore fantascientifico (le fonti sono le sperimentazioni di Demilich e Timeghoul), passaggi acustici e, in coda, un senso di inesplicabile desolazione.
09/12/2019