La pubblicazione di un nuovo Lp degli Opeth mi ha fatto subito chiedere se mi fossi trovato di fronte al loro tredicesimo album o di fronte al quarto album della loro seconda fase. La svolta progressive - da “Heritage” in poi - si conferma un dato di fatto ineludibile, rispetto al quale è inutile mostrare rimpianti. Una scelta da alcuni punti di vista coraggiosa, se si considera l’alto grado di impopolarità. Gli Opeth di Mikael Åkerfeldt sono una band progressive a tutti gli effetti da anni, e non hanno alcuna intenzione di operare ritorni alle origini o svolte verso nuovi lidi. Sono una band consolidata, da molti punti di vista ripetitiva e ordinaria, ma di una ordinarietà di lusso.
Il nuovo “In Cauda Venenum” - registrato in due versioni, svedese e inglese - conferma in gran parte le prospettive di “Pale Communion” e “Sorceress” con brani mediamente più lunghi (7-8 minuti), spesso decisamente complessi e altalenanti negli stili, che confermano in primis il solito aspetto di una tecnica superiore alla media. Gli Opeth, piacciano o meno, sono una band di elevato livello, sia tecnico che compositivo. Lo dimostrano ovunque, con cambi di ritmo diversi, pochi momenti metal, svariati arrangiamenti folk, melodie ben ricercate contenute all'interno di un enorme calderone di influenze progressive di vario tipo (dai King Crimson ai Genesis, dai Dream Theater fino al prog italiano, sino alla inattesa citazione dei Megadeth di “Hangar 18”).
Dieci brani che alternano momenti perfetti per i fan del prog classico ad altri di stanca, causati da una certa ripetitività dovuta da una struttura fin troppo consolidata, e forse troppo lunga, dei brani (episodi prog, folk, metal, melodici più o meno in ogni traccia).
L’intro quasi petrucciana con coro di “Dignity” è indubbiamente di altissimo livello, come tutto quello che segue nei sei minuti, con una voce capace di cambiare e adattarsi continuamente ad atmosfere folk, momenti hard-rock e riff prog-metal. I testi riprendono un discorso del leader socialdemocratico svedese Olof Palme, ucciso nel 1986 in un attentato ordito da esponenti dell’estrema destra svedese. Il discorso che omaggia questo grande leader della sinistra europea racconta la paura del futuro e della solitudine, tema conduttore dell’intero album. “Heart In Hand” è un altro dei punti di forza, che mette in mostra un riff sabbathiano e una melodia azzeccata, oltre a una tecnica prodigiosa da parte di tutti i musicisti e a una capacità di far convivere mondi diversi senza creare strappi.
Nei brani successivi siamo alla ricerca di arrangiamenti sempre più pomposi e magniloquenti (il finale epico sinfonico di “Next Of Kin”), o di atmosfere fin troppo romantiche (la ballad da band metal anni 80 “Lovelorn Crime”). “Universal Truth”, con le sue tastiere imponenti, è decisamente legata ai primi King Crimson, per poi dirigersi in territori tipicamente Opeth. Difficile trovare prog metal, se non in alcuni momenti di “Charlatan”, con riff energico di chitarra e assoli prog di tastiera.
Volendo cercare qualcosa di davvero diverso, dobbiamo addentrarci nei sei minuti di “The Garroter”, con un inizio inconcludente di chitarra spagnola che però è da rivalutare appena dopo con un ritmo di piano e chitarra jazzati che mostrano una cultura musicale non indifferente, figlia del jazz-rock che non abbandona la ricerca melodica.
Il finale “All Things Will Pass” gioca la carta epica e straziante allo stesso tempo, con riff potente ma malinconico e testi sull'alienazione di una società di uomini soli, immersi nella tecnologia, iperconnessi tra loro, ma chiusi nei loro micromondi. La citazione finale di “Hangar 18” dei Megadeth dell’album “Rust In Peace”, oltre a omaggiare la band di Mustaine, conferma tutti i timori degli Opeth per un mondo dominato da una tecnologia incontrollabile.
01/10/2019