Sesto album in carriera, “Grand Guignol Orchestra” promette senza mezzi termini quanto il titolo lascia intuire, inscenando uno spettacolo in dieci movimenti dal carattere teatrale e oltranzista, in cui i tratti fondanti del black-metal sono il trait d'union per una complicata alchimia sonora, tanto irriverente quanto profondamente tragica. In questo circo nero, violento e provocante allo stesso tempo, l'etichetta dietro cui si nasconde la creatività di Valhôll raggiunge uno dei suoi momenti più intensi, nell'ambito di un'espressività già da tempo pienamente formata. Morbosamente inquietante.
Non si cerchino torrenziali cascate chitarristiche o imponenti muraglie ritmiche, nell'arco dei tre quarti d'ora del progetto, perché si finirà irrimediabilmente a bocca asciutta: ennesima dimostrazione di come i linguaggi black si siano allontanati dall'ortodossia degli esordi, in “Grand Guignol Orchestra” fungono, in maniera ancor più decisa rispetto alle due precedenti prove, a supporto concettuale e umorale di un'impalcatura ben più articolata, in cui Valhôll dà prova di grande rigore e finezza espressiva. Con un'organizzazione della scaletta strutturata a mo' di effettiva piéce teatrale, il musicista parigino adatta i lineamenti propri del metallo nero (meglio se di matrice depressiva) all'ideazione di un suono ibrido, cangiante, capace di passare con assoluta disinvoltura da armonie folk a motivetti jazz d'antan, dall'irriverenza senza freni del dark-cabaret (l'utilizzo luciferino della “Nonsense song” di Charlie Chaplin in apertura di “Poil de lune”) a spiritate modulazioni circensi, talvolta nell'arco di un solo brano.
Un'orchestra grandguignolesca in piena regola, per l'appunto, condotta con la lucida follia di un direttore indemoniato, che non esita a intervenire e modificare il corso degli eventi: è così che la voce dell'autore, esperta nel declinare ogni singola nuance del complicato mélange stilistico, fa prendere sbandate inattese agli eventi narrati, tanto da stravolgerne le premesse di partenza. “Les valseuses”, forse il brano che più reca impresse le stimmate black-metal originarie, si dissolve in una sardonica operetta jazzy, reminiscente dei momenti più sfrontati di Foetus e Pain Teens. “Anis maudit”, situata su iniziali premesse gothic/doom, prende invece la strada di un'efficace sintesi black-circense, strutturandosi a mo' di vivace catalogo di vignette, ciascuna col suo particolare flair.
In una raffinatissima operazione di sincretismo approdata alla sua piena maturità, il progetto Pensées Nocturnes tiene alte le quotazioni del metal d'oltralpe, insediandosi in una nicchia immediatamente apprezzabile nella sua singolarità. Rimane un progetto per pochissimi, ma il godimento, per quanto contorto, è assicurato.
(22/05/2019)