C'è sempre un fondo di speranza quando si affronta un nuovo album della celebre newyorkese Alicia Keys, ma questo suo settimo lavoro di studio in un ventennio di platinata attività sembra nuovamente intenzionato a proseguire nel solco di un generico pop-soul da (vecchia) classifica. Titolato col nome della propria autrice, "Alicia" vorrebbe essere in qualche maniera indicativo non solo dello stile ma anche delle varie sfaccettature della sua personalità artistica, ma con una parata di ospiti chiamati a raccolta per fornire ognuno un pezzetto del proprio spaccato musicale, il risultato è piuttosto un collage dove la vena autoriale viene meno, come se Alicia fosse rimasta a secco di idee.
Del resto, quanto ci si mette da sola, i risultati possono essere magri - basti sentire "Love Looks Better", dove un'enfatica sezione ritmica incontra un tronfio motivetto da arena alla Coldplay e si lascia poi accompagnare da un terrificante videoclip di contorno che inscena l'ennesima "ribellione" da patinato attivismo social. Sulle stesse corde anche la celebrazione di tutti gli "Underdog" d'America, tra scontate retoriche femministe e cori africani.
Possibile che la virtuosa pianista e finissima autrice di "Songs In A Minor" e "The Diary Of Alicia Keys" si sia impantanata a far canzonette come una P!nk a caso? Purtroppo sì.
Il punto è che la carriera di Alicia riposa ormai in una botte di ferro, e dalla sua placida posizione di sicurezza, l'autrice contribuisce con parchi momenti di ordinaria amministrazione; ecco quindi servite un'anonima ballata in duetto con la svedese Snoh Aalegra ("You Save Me"), le immancabili occhiatine in tralice al revival anni 80 di The Weeknd ("Authors Of Forever"), e uno sciagattante ritmo caraibico di turno ("Wasted Energy").
La bella voce di Miguel non basta a fare di "Show Me Love" una ballata degna di nota, anzi. La ruggente New York di un tempo oggi s'è trasformata nell'affluente e gentrificato "Gramercy Park", placido come un jazz di Norah Jones suonato in un coffee shop vegano.
Peccato anche quando il tributo a tutti i lavoratori essenziali durante la pandemia di "Good Job" venga proposto in maniera così terribilmente banale. E pure "Perfect Way To Die" si porta dietro una certa retorica facilona, per quanto stavolta la canzone venga salvata all'ultimo da Alicia grazie a un'interpretazione tipica delle sue - con quella voce, al contempo raffinata come il soul e stradaiola come l'hip-hop, la Keys sa comunque evitare virtuosismi di sorta e arrivare dritta al nocciolo.
Ovviamente qualche buon pezzo salta fuori per forza: "Time Machine" è un vellutato disco-funk giocato su un vibrante beat e un fantastico ritornello che sembra partire dal nulla per poi andare planare in un mare di nostalgia. Non male neanche lo scarno ma avvincente electro-synth-soul di "3 Hour Drive" con Sampha ospite alla voce (ma recentemente presentato alle sessioni Colors in duetto con SiR).
L'inconfondibile mano dell'alt-rapper Tierra Whack contribuisce a fare di "Me x 7" una divertente filastrocca dove ironia e ispirazione viaggiano di pari passo, la cantabile linea melodica intonata da Alicia in svariati frangenti ricorda non poco la Selena Gomez ad altezza "Bad Liar". Non solo, ma assieme al noiosone da streaming per eccellenza Khalid, Alicia infila - totalmente a sopresa - l'esangue bozzetto acustico "So Done", pregno del Frank Ocean più introverso e scazzato ma ancora interessato a scrivere canzoni.
In conclusione, ci ritroviamo tra le mani un disco che è talvolta bello ma spesso troppo generico, composto con sicura perizia tecnica ma sempre pronto a risolversi in pose piacione, percorso da temi tanto encomiabili quanto serviti con l'enfasi a buon mercato di un talent show - e con in più una montagna di ospiti a coprire eventuali falle qua e là. Se persino Beyoncé Knowles, nel corso del decennio appena passato, è riuscita a darsi una vena autoriale, la peraltro ben più virtuosa Alicia per ora rimane la solita popwriter di contorno al panorama americano, incapace di bucare oltre la propria navigata professionalità.
Curioso, a tal proposito, trovare in scaletta una rarefatta dedica alla concittadina Jill Scott, altra superba penna dell'era neo-soul che, esattamente come Alicia, in tempi recenti ha barattato la poesia con la radiofonia, aumentando certamente il seguito di pubblico ma sminuendo la statura del proprio lascito artistico. Un peccato, perché entrambe le Signore in questione avrebbero la stoffa e il talento per offrire molto di meglio.
15/10/2020