La scena jazz contemporanea è in pieno fermento, tra nuove formazioni che stanno abilmente ampliando i confini del genere e autentiche star come
Kamasi Washington, che hanno riportato sotto i riflettori della critica e del pubblico musicisti e album dimenticati dal tempo. Tra questi vi è anche Idris Ackamoor, compositore, multistrumentista e produttore cresciuto alla corte di Cecil Taylor che ha conosciuto una certa notorietà negli anni 70, senza però lasciare tracce discografiche ufficiali, avendo inciso tre album con i Pyramids autoprodotti e distribuiti solo durante i lunghi tour (“Lalibela”, “King Of Kings” e “Birth/Speed/Merging”).
Dopo un poco fortunato ritorno in scena nel 1998, il musicista ha rimesso in piedi la formazione dei Pyramids nel 2015, richiamando alcuni degli elementi originali e ottenendo finalmente la meritata visibilità grazie a due album caratterizzati da intensi
groove slow-jazz-funk. Dr. Margaux Simmons (flauto), Bobby Cobb (chitarra), Sandra Poindexter (violino), Ruben Ramos (basso), Gioele Pagliaccia (batteria) e Jack Yglesias (percussioni) sono l’attuale
line-up dei Pyramids. “Shaman” è senza dubbio il loro capitolo più ambizioso: un lungo flusso spiritual jazz-blues, una suite di settantacinque minuti, divisa in quattro sezioni e caratterizzata da toni morbidi, vellutati, elettroacustici, affini alle raffinate elaborazioni di Pharoah Sanders, terreno fertile per le introspettive riflessioni dell’autore sull'amore, la perdita, la mortalità, l'aldilà, la famiglia e la salvezza.
I quasi tredici minuti della
title track sono l’esternazione più vivida dello stile di Ackamoor, più incline al ritmo e al controtempo di quanto non lo siano le fonti d’ispirazione. Afro e funk tengono alta la tensione di una moderna
fusion creativa e affascinante, ma non sempre memorabile. Argomentazioni sociali e politiche animano le romantiche trame di “When Will I See You Again”, un brano nato sull’onda emotiva della recente pandemia, mentre “Theme For Cecil” scivola in forme di dialogo strumentale più classicamente jazz, rispettando l’ovvia natura di omaggio alla figura di Taylor.
Particolarmente incisiva e originale è l’atmosfera esotica e orientaleggiante di “Eternity”, un brano che mette in luce la personalità artistica della violinista Sandra Poindexter, ma nello stesso tempo anche un problema di alcune composizioni, che meritavano una lieve limatura nei tempi, considerato che spesso procedono stancamente verso il finale. Un problema che si ripresenta in misura minore nell’esoterica e spirituale “Salvation”.
I tratti psichedelici ed ethno-jazz di “Dogon Mysteries” e il fascino sciamanico dell'eccellente
groove di “The Last Slave Ship” caratterizzano infine le due composizioni più rimarchevoli, nonché le più brevi dell’intero progetto, confermando la creatività e l’ingegno dei musicisti coinvolti. Peccato che a volte prevalga la sensazione che Idris Ackamoor, galvanizzato dall’ottima band al seguito, si sia lasciato prendere la mano, confondendo la sala d’incisione con il palcoscenico.
Il disco è stato registrato senza molte sovraincisioni e in lunghe
take live in studio, smorzando con toni a volte prolissi un progetto oltremodo interessante.
L’impatto finale è quello di un album che avrebbe meritato una maggiore incisività espressiva, anche se va detto che difficilmente deluderà i fan del musicista, per i quali “Shaman” non è che la conclusione di un trittico produttivo eccellente, un tassello comunque importante di un artista che da cinquant’anni regala intense suggestioni.