Recuperato il moniker Rustin Man, il musicista inglese ha inciso, nell’anno trascorso, una delle opere più arcane e profonde, un disco brulicante di ballate elettroacustiche oscure e poeticamente spettrali.
Al nostalgico virato seppia di “Drift Code” l’artista ora dà seguito ricorrendo a un altro fronte monocromatico. Il verde petrolio di “Clockdust” è fortemente nostalgico e dolente, ma anche lievemente grottesco, uno sfondo sul quale si muovono personaggi di un immaginario circo, figure umane che, preda delle proprie ossessioni, sembrano aver abdicato a una progettualità sul futuro restando sospesi, immobili nell’asettico spazio dell’immagine di copertina.
Concepito nello stesso spazio temporale del capitolo precedente, “Clockdust” non è il figlio povero di “Drift Code”: a tratti è persino più profondo e autarchico. La voce di Webb ha il fascino inquietante del Bowie di “Blackstar” e l’algida tristezza di Robert Wyatt.
Più che emozioni sono sfumature, svogliati tempi ritmici che attendono la flebile armonia dell’organo per accennare una melodia lievemente più vitale (“Jackie’s Room”), o un canto flebile dalla greve spiritualità per poter affondare nelle lande jazz-blues di Nina Simone e Billie Holiday, con tanto di malinconico assolo di tromba al seguito (“Old Flamingo”).
Paul Webb dosa sempre con sapienza le suggestioni e le assonanze con Robert Wyatt (“Man With A Remedy”) e Tom Waits (la grottesca “Kinky Living”). A volte si rifugia nelle tenebre dipinte da Peter Hammill, intonando la criptica “Carousel Days” o rievoca l’elegante semplicità di “Out Of Season” nel crepuscolare dipinto di “Gold And Tinsel”, fino a perdersi nelle nebbie del dub per stemperare il fondo in bianco e nero della lunga e rigogliosa “Night In Evening City”: sette minuti e diciassette secondi che omaggiano “Spirit Of Eden” grazie anche ai sotterranei richiami ai Traffic che tanto ispirarono Mark Hollis all’epoca della svolta post-rock.
Quando l’ardire prende il sopravvento, germogliano insolite connessioni: l’atipica saudade di “Love Turns Her On” cita Jacques Brel e Caetano Veloso, la drammaturgia dell’insolito strumentale “Rubicon Song” incrocia l’estetica teatrale di Kurt Weil, confermando così la natura più ariosa e agrodolce di “Clockdust”.
La musica di Rustin Man palpita, formicola, crea fumo e scintille, incanta e disturba, accarezza fino a graffiare la pelle, ma una cosa è certa: non lascia indifferenti, e di questi tempi è cosa rara e preziosa. “Clockdust” è come un brivido che lascia l’ascoltatore dolcemente in attesa del prossimo racconto dalle imponderabili tonalità monocromatiche.
(15/04/2020)