La musica contemporanea ha bisogno di fuoriclasse, di talenti fuori dall’ordinario, per riconquistare quella centralità nel panorama artistico che negli ultimi tempi sembra dissolversi in un mare di buone intenzioni e di pur validi tentativi di rigenerazione delle glorie passate. Pochi dubbi, il nome di Makaya McCraven è da annotare tra i protagonisti del nostro tempo.
Figlio d’arte, il padre Stephen era un batterista jazz mentre la madre Agnes Zsigmondi è stata una cantante e flautista in una band di folk ungherese, autentico innovatore della musica contemporanea, il musicista di stanza a Chicago ha rimesso al centro del jazz la peculiare e naturale attitudine alla contaminazione.
La sfida dell’ultimo album, “In These Times”, è quella di valicare i confini senza rinunciare alle radici più profonde, un progetto sedimentato in un lungo arco di tempo, sette anni, durante i quali McCraven si è confrontato prima con la figura di Gil Scott-Heron nella ingegnosa rilettura del tormentato “We’re New Again”, quindi con il catalogo della prestigiosa etichetta Blue Note nello stimolante “Deciphering The Message”.
Poco incline al virtuosismo fine a se stesso, o a quelle gabbie concettuali che hanno reso esangue il termine jazz, Makaya McCraven riparte dal ritmo e dalla sua interazione con spazio e tempo, per un disco che vive di impulsi, desideri, raptus, un suono organico e mutante che scorre come la vita. E’ un percorso per molti versi affine a quello di Teo Macero, ma anche di Madlib.
Le undici composizioni di “In These Times” sono altrettante sfaccettature di un diamante prezioso, che fa tesoro anche di eventuali imperfezioni. Nato a Parigi, cresciuto nel Massachusetts e residente a Chicago, il musicista rinnova la fecondità della tradizione popolare, con il disco più completo, complesso, dinamico e magico della propria carriera, egregiamente supportato da una quindicina di musicisti e da un parterre sonoro mai così ampio e versatile.
La title track non solo apre le danze, ma pone a monte del progetto le mai soppresse diseguaglianze sociali, affidando a un discorso di Harry Belafonte sulla mitica figura afroamericana di John Henry il proprio punto di vista sulla necessità della definitiva libertà e autodeterminazione dei neri, rimarcando il mai sopito interesse per problematiche sociali e politiche per le quali l’artista è stato spesso in prima linea.
Dal punto di vista strettamente musicale, ancora una volta McCraven si dimostra all’altezza dell’appellativo di “scienziato del ritmo”, poliritmia, ritmi afro e tempi dispari si intrecciano con loop, ritmi hip-hop, funky e dj beat, conciliando la fisiologia naturale del ritmo con un potente patrimonio armonico, dai tratti elegiaci e onirici, abilmente stratificato e rifinito.
A tanta meticolosa ricerca della perfezione non fa difetto quella magia che nasce dall’improvvisazione e dall’istinto. Ma a essere protagonista è comunque l’enorme mole di lirismo e ritmo creata da McCraven, percepibile sia nella gioiosa festa d’ottoni della elegante eppur frenetica “This Place That Place”, sia nella struttura quasi sinfonica e orientaleggiante di “Seventh String”.
Avvincente ed elaborato “In These Times” è funzionale sia per un ascolto attento e rilassato in solitudine, sia per una fluida e tracimante esecuzione live. In quest’ottica il groove funky-soft di “Dream Another”, abbellito da note solari e suoni di flauto, e l’incalzante duello tra basso e batteria di “The Fours” rappresentano le possibili vette dell’album. A voler racchiudere in poche parole l’ultimo lavoro di Makaya McCraven ci si può avvalere del termine jazz inteso come un mantello che avvolge funky, folk, rock, hip-hop, musica etnica e tutte quelle suggestioni che possono scaturire dall’interazione tra strumenti acustici ed elettronici. A reggere le fila è comunque il ritmo: quello elegantemente funky di “High Fives”, quello esotico a base di groove caraibici, marimba, arpa e handclap di “So Ubuji” o quello più arioso e vellutato di “The Title”.
Resta altresì innegabile la costante attenzione dell’artista all’incanto che nasce dalla melodia: il mood da colonna sonora anni 70 di “The Calling”, le affinità con la fusion della raffinata “The Knew Untitled” e le riflessive e malinconiche grazie della preziosa rielaborazione di un brano del gruppo folk ungherese dove militava la madre di Makaya, la splendida “Lullaby”, si muovono in tal senso, aggiungendo ulteriori spunti a uno degli album più seducenti dell’anno in corso.
01/10/2022