Valerio Visconti è un ventenne che spunta dalle spettacolari lande monferrine, più precisamente da Acqui Terme, terra storicamente fruttifera di idee in ambito musicale.
Il giovane artista entra in campo con un lavoro d’esordio concepito durante il periodo di pandemia. Il titolo non lascia spazio a equivoci: “DPCM” ricapitola con un freddo acronimo tutta la schiera di sensazioni, paure, difficoltà, speranze e tanto altro, scaturite nel corso di questo anomalo quanto, si spera, irripetibile periodo storico.
Il piglio utilizzato da Visconti è di quelli sanguinolenti. Il suo è un cantautorato affilato, a tratti ironico, ma che lascia spazio anche ad afflati di intimismo e mostra sorprendenti capacità metriche e di sintesi, che per la sua verde età non sono affatto d’abitudine.
Il graffiante post-punk utilizzato per inglobare tutta questa carica espressiva sprigiona l’energia e l’arguzia che il ragazzo piemontese ha tenuto incatenate per tutti i mesi di lockdown. Le sette tracce che compongono l’album, prodotte da Giulio Ragno Favero (Teatro degli Orrori), interamente scritte, composte e suonate da Valerio, si mostrano versatili e intraprendenti e, se s’intravvede qualche piccola sbavatura, si può intendere quale volontario difetto inserito a comprova della preoccupante situazione che ci circonda.
Le influenze che trasudano dai brani sono molto chiare: dallo sporco pop-rock di “La morte a Venezia”, che cita Thomas Mann e unisce, in un improbabile scenario, le liriche di Battiato con le fragranze stilistiche degli Strokes, alle virtù baustelliane che levigano “Le idi di marzo”, episodio che prova ad alleggerire l’illusoria consuetudine citando addirittura la congiura perpetrata ai danni di Giulio Cesare.
Se “Narcisi sbagliati” è una ballata imbrattata e profonda, che analizza il rapporto a volte tossico che si ha con se stessi e l’edificante energia che si ottiene quando l’amore è, invece, elargito al prossimo, tutte le suggestioni e le incertezze connesse alla grande disillusione del lockdown sono sfogate in “Ammorbidente”, brano un po' Interpol e molto Cccp, non solo nelle sfumature armoniche.
“Poeti” è il primo testo scritto da Visconti in italiano, che solitamente approccia alle sue composizioni in lingua inglese, e se il punk scatenato della title track esterna lo sfinimento e la rabbia patita da un ragazzo chiuso in casa per svariati mesi, “Nulla mi urterebbe più” è la quota sindacale dedicata all’intimità, in questo caso liberatoria e psicanalizzante, che a briglie sciolte tratta del complesso rapporto padre-figlio.
Il sorprendente album d’esordio di Visconti (cit.) è urgente e violento.
Gridando nell’incertezza, cerca di raccontare le sensazioni di chi è troppo giovane per essere adulto e troppo grande per essere adolescente. La penna dell’artista piemontese insegue una stabilità tra assalti post-punk e incroci cantautorali, laddove coesistono diverse suggestioni che si plasmano in un sound inedito, intriso d’imperfezione come di melodia, di rabbia e ispirazione.
I contenuti toccano temi decadenti come la morte, l’ammorbamento morale e la follia, concetti presi, sviscerati ed esasperati nella loro attualità e nel loro essere il prodotto di un’età frutto di squilibri e controsensi.
Visconti è un nome promettente, partito decisamente con il piede giusto.
27/03/2022