Non era facile dare un seguito a “Smiling With No Teeth”. Non dopo che l'uscita dell'album ha catapultato la fama di Genesis Owusu a livelli che non avrebbe nemmeno immaginato, vincendo ogni premio che l'Australia poteva offrirgli (tra cui quello di disco dell'anno agli ARIA Awards) e conducendo una tournée da star pienamente affermata. Il tutto con una mescola sonora tra le più trascinanti in circolazione e un nucleo tematico di rara pregnanza, capace di suggellare le difficoltà e l'isolamento di un giovane ragazzo africano nella terra dei canguri. Non era facile, per niente, e il titolo scelto per l'occasione del secondo difficile album, “Struggler”, può applicarsi tranquillamente al concetto. Ancor più nervoso e punk rispetto al già scattante esordio, senza naturalmente dimenticarsi della vena soul che già aveva fatto faville, il progetto taglia corto con qualsivoglia orpello e offre un concept dal tocco kafkiano, il resoconto di una faticosa lotta per la sopravvivenza che non pare dover aver mai fine. Preoccupati? Tranquilli, Owusu vi conduce nella storia con la forza della sua personalità.
Kafka e Beckett, trasformazione e attesa, nel mezzo di un mondo avviatosi verso la sua distruzione: lo “scarafaggio” protagonista della narrazione lotta, combatte i suoi demoni, si agita all'interno di un contesto che esacerba le sue difficoltà all'ennesima potenza. Esistenzialismo? Sì, ma condito di una frizzante abilità nel racconto, che rende anche la più annichilente depressione materiale da mutant-disco (gli scintillii sintetici che punteggiano la cavernosa fatica lessicale di “The Old Man”).
Altrove è il raffinato soul-man a emergere, a disciogliere il proprio desiderio di annullamento in un'elegante jam alla Isaac Hayes, tutta groove rallentati e deliziosi cori femminili (“See Ya There”). Tutto finalizza ad accrescere il pathos del racconto, a enfatizzare e distendere operando ora di contrasto (gli abbrivi funk di “Tied Up!”, i fraseggi alla Rick James che animano “That's A Life”) ora irrobustendo il taglio abrasivo di bassi e chitarre, in un gioco di specchi che muta l'orrore in farsa, il turbamento in slancio espressivo (gli slanci Bloc Party di “Leaving The Light”).
Difficile non vedere tanto di Owusu nello Scarafaggio, non individuare i contraccolpi di una gioventù spesa tra isolamento e depressione. Altrettanto difficile non vedere la forza nervosa di un talento che ha imparato a gestire i meccanismi della fama e non ha permesso che lo soggiogassero, preferendo mantenere intatta la sua visione e la sua indipendenza.
Troppa carne al fuoco? Nemmeno per idea, l'autore ha chiarissimo dove vuole andare a parare, i cambi di umore servono ad accentuare lo sfrigolare incessante, la triste impazienza che infine si fa pronta accettazione/rassegnazione, ritrovata ciclicità (“Stuck To The Fan”). Che sia arrivato il momento della meritata serenità per Genesis Owusu? Non è dato saperlo con precisione, è chiaro però che da questo combattimento tanto è cambiato: il futuro è pronto a farne germogliare i semi.
11/09/2023