La storia del funk è sempre stata popolata di personaggi a loro modo bizzarri e provocanti. Basterebbe citare i pesci grossi e ricordare per un attimo le loro trovate: dal magnate James Brown all’innovatore
George Clinton, passando per la sregolatezza di
Prince. Le bollicine, del resto, sono da sempre parte costitutiva di uno dei generi più frizzanti della
popular music. Ciononostante, c’è stato un musicista unico nel suo genere, capace di risultare stravagante persino all’interno del calderone funk. Un uomo che ha letteralmente travolto la platea con la sua inebriante fusione di elementi
disco conditi puntualmente da un amore incondizionato per la musica soul e il rock dai contorni esagerati, addirittura
glam. Un musicista con il ritmo nel sangue e il sorriso beffardo di chi vuol vivere una vita a mille all’ora fregandosene del giudizio altrui. Una vita però iniziata male, con il padre che lo abbandona quando ha solo dieci anni, e un unico grande sostegno, quello della madre, ballerina per la celebre compagnia di Katherine Dunham. Fu proprio lei a introdurre il giovane James Ambrose Johnson Jr. nel mondo della musica, seppur involontariamente. Grazie ai suoi spettacoli nei locali più esclusivi della Grande Mela, James ebbe l’opportunità di assistere ai concerti di Etta James,
John Coltrane e
Miles Davis. Tuttavia, fu parimenti precoce anche il suo contatto con lo spietato mondo della droga. Una dipendenza durata tutta una vita, e che lo porterà alla morte nel 2004 a soli 56 anni.
Dopo un arresto per furto con scasso, James entrò nella Marina degli Stati Uniti non ancora sedicenne, mentendo finanche sulla sua età. In quei mesi, divenne anche batterista per gruppi newyorkesi di stampo jazz, prima di essere chiamato per il Vietnam. Chiamata ovviamente bypassata con una fuga a Toronto nel 1965, dove incontrò
Neil Young e
Joni Mitchell. Per evitare di essere acciuffato, iniziò a farsi chiamare Ricky James Matthews, e sempre nello stesso anno ebbe il tempo di assemblare gli effimeri Mynah Birds, band dall’orientamento r&b. Nelle loro fila passarono
Bruce Palmer e lo stesso Young, di lì a poco alla guida dei
Buffalo Springfield.
Fu a Detroit, dove la band si era stabilita per registrare del materiale per la Motown, che l’ancora giovanissimo James incontrò i suoi guru musicali:
Marvin Gaye e
Stevie Wonder. E fu proprio quest’ultimo a suggerirgli di accorciare il suo nome in Rick James, al netto dei problemi con la Marina. Infatti, dopo varie peripezie legali con quest’ultima, terminate soltanto nel 1968, James iniziò finalmente a dedicarsi a tempo pieno alla musica e scrisse canzoni per i Miracles, Bobby Taylor & the Vancouvers e gli Spinners.
Rientrato finalmente nell’amata New York nel 1973, firmò un contratto con la A&M, pubblicando così il suo primo singolo, "My Mama". Con la Stone City Band, costruita a sua immagine e somiglianza, registrò successivamente "Get Up And Dance!", brano che gli valse nuovamente l’attenzione della Motown di Berry Gordy, il quale comprese definitivamente di dover dare una chance a quel fenomeno musicale tanto sfacciato e irriverente, quanto contagioso.
Il singolo “You And I” ebbe un notevole successo, così come l’album “Come And Get It!” (1978), denso di partiture p-funk e groove roboanti. Ne venne tratto un anche un classico del calibro di “Mary Jane”, inno ben poco velato alla marijuana. I successivi "Bustin' Out Of L Seven" (1978), "Fire It Up" (1979) e "Garden Of Love" (1980) confermarono la sua fama, in particolare nei circuito della black music, a riprova di un talento sostanzialmente fuori dalla norma. È un periodo d’oro per James, che ha anche il tempo di produrre l’album “Wild And Peaceful” della splendida Teena Marie, con tanto di duetto nel brano "I'm A Sucker (For Your Love)".
Se c’è però un disco con cui James ha abbattuto le barriere di settore, accaparrandosi un forte appeal anche presso il pubblico bianco, quello è “Street Songs”, uscito nell'aprile del 1981. Si tratta di un paradosso piuttosto curioso, essendo l'album con i suoi testi più estremi fino a quel momento.
James fece presa senza cedere ad alcun compromesso, ma anzi premendo l’acceleratore sulla sua urgenza espressiva, cantando così la vita dei bassifondi New York, su cui del resto avrebbe potuto scrivere più di un saggio.
Da questo punto di vista James, pur continuandone la missione, non seguiva le linee guida dei precedenti santoni del funk più abrasivo. Brown aveva impostato la propria carriera sul riscatto degli afroamericani, e si era costruito un’immagine da sex symbol, ma senza mai risultare oltraggioso. Clinton, dal canto suo, cantava l’orgoglio dei neri tramite metafore, che filtravano più o meno esplicite dai suoi soggetti fantascientifici, quando non del tutto astratti (“One Nation Under A Groove”).
James si distaccò da tutto questo, da un lato tirando in ballo il sesso nella maniera più cruda possibile, così come stava facendo
Prince in contemporanea, e dall’altro cantando il lato oscuro della fascia più povera della popolazione, non necessariamente nera. I problemi con l’abuso di potere dei poliziotti (“Mr. Policeman”), il bullismo e il sesso giovanile dei quartieri più degradati (“In The Ghetto”, “Below The Funk”): non erano argomenti esclusivi dei neri, né James li ha inquadrati dal punto di vista razziale nelle canzoni in questione. Non è difficile comprendere come anche un bianco potesse immedesimarsi nelle parole di quell’alieno, la cui pelle nera – anche nell’America problematica dell’epoca – non comportava un problema più dei suoi capelli lunghissimi, del suo vestito in pelle nera attillata, o dei suoi stivaloni rossi col tacco. Un abbigliamento dal taglio fortemente femminile e sessualizzato, che James adottò anche come simbolo di rivincita sociale: proprio in “Below The Funk” canta di come in passato avesse subito insulti omofobi. Anche in questo, il parallelo col Prince di “Dirty Mind”, altro noto eterosessuale iperattivo a cui piaceva mettere in mostra la propria femminilità, è calzante.
Per il lancio dell’album vennero girati dei videoclip per “Give It To Me” e “Super Freak”, in cui James si accompagnava a modelle avvenenti, corteggiandole o semplicemente ballandoci insieme, e condendo il tutto con sguardi provocatori o smorfie oscene verso la telecamera.
I video in questione, così come quelli coevi di Prince, venivano passati sulla neonata Mtv soltanto nella fascia notturna, in quanto i gestori temevano ripercussioni per una musica distante dal proprio target, prevalentemente bianco. Uno dei presentatori del canale, Mark Goodman, venne pressato al riguardo da
David Bowie durante un’intervista, e ammise che mandare in onda quelle “facce nere” avrebbe potuto spaventare un ragazzino bianco del Midwest. Questa era la situazione sociale in cui James si inserì col massimo della sfrontatezza: bisognava affrontare il problema sfondando l’omertà, serviva una testa d’ariete, non era più possibile attendere un lento cambiamento che veniva promesso da ormai troppo tempo.
Anche senza l’entusiasmo di Mtv, la potenza del messaggio fu tale che il disco riuscì a spingersi fino al terzo posto di Billboard e rimase in classifica per un anno e mezzo.
In retrospettiva, il disco sembra mirare in ogni dettaglio al raggiungimento di un pubblico trasversale. Gli arrangiamenti e la scrittura si distaccarono in maniera quasi traumatica dai precedenti lavori dell'artista, che curò ogni aggiornamento in prima persona, forte delle sue abilità di polistrumentista. Vennero praticamente eliminate le jam che avevano caratterizzato il suo stile fino a quel momento: niente più brani con code o intermezzi basati su sfiancanti reiterazioni, niente più arrangiamenti con accumuli strumentali caotici, niente più orchestrazioni dagli effluvi disco (genere che James non ha mai frequentato esplicitamente, ma di cui aveva per forza di cose subito la contemporaneità).
In luogo delle stregonerie p-funk, James presentò otto canzoni fortemente incentrate sulla scrittura, con strutture molto più definite che in passato, pronte ad attirare l’attenzione al primo passaggio radiofonico. Impose un passo indietro alle chitarre e uno in avanti ai più moderni sintetizzatori, smorzò l’importanza della batteria sovrapponendo i battiti delle mani (opportunamente effettati) a ogni colpo di rullante, doppiò occasionalmente le sue magistrali linee di basso con una tastiera, e inserì una sezione di fiati, probabilmente per non far risultare il tutto troppo asettico. I nuovi arrangiamenti, soprattutto per il contrasto con il passato recente, sembravano infatti giocare di sottrazione, e non si poteva rischiare che, per modernizzare il sound, se ne svuotasse il dinamismo.
Ben cinque sono funk riempipista (“Give It To Me”, “In The Ghetto”, “Super Freak”, “Call Me Up”, “Below The Funk”), spezzati da due ballate (la superba “Make Love To Me”, con la linea di basso più in evidenza della scaletta, e la lunga “Fire And Desire”, nuovo duetto con Teena Marie) e da un reggae (“Mr. Policeman”, probabilmente influenzato da “Master Blaster” di Stevie Wonder, il che spiegherebbe la presenza di quest’ultimo all’armonica).
A parte l'enorme influenza sull'hip-hop (non stiamo neanche a contare gli artisti che ne avrebbero tratto qualche campionamento), il disco avrebbe settato diversi standard, diventando un classico del cosiddetto synth-funk – caratterizzato appunto dal predominio delle tastiere – e più in generale della stagione immediatamente successiva al crollo della disco music, che vide sorgere il nuovo volto della musica nera. Lo scorrere del tempo e la sua inquadratura storica ci hanno in seguito permesso di indicare “Street Songs” come uno dei momenti fondanti del contemporary r&b.
Più o meno da quel momento, “r&b” non fu più l’equivalente automatico del rhythm & blues figlio degli anni Sessanta, ma assunse un significato postmoderno, stilisticamente omnicomprensivo, fortemente legato allo sviluppo tecnologico. Per fare un esempio pratico, se oggi con il termine si possono descrivere anche
Kali Uchis o
Janelle Monae, e non più soltanto Otis Redding e
Aretha Franklin, è perché in mezzo c’è stata una scuola di musicisti che spostò il baricentro del suo significato. Fra questi, James è stato sorpassato solo da Prince e
Michael Jackson per impatto, e solo dal primo per visionarietà. Tuttavia, se la droga e una serie di problemi con la legge non avessero minato fortemente la carriera di James nella seconda metà degli anni Ottanta, fino ad annientarla allo scattare dei Novanta, oggi parleremmo con ogni probabilità di uno degli artisti più importanti dell’epoca, e non di una figura sulla scia del folletto di Minneapolis, come viene superficialmente liquidato.
Dall’altro canto, è anche vero che se non fosse stato tanto estremo, probabilmente non sarebbe stato Rick James, alieno e
freak per antonomasia della stagione che rivoluzionò la cultura americana.
24/02/2019