Di tutti i musicisti diventati icone della storia della musica rock, John Cale è indubbiamente tra i più congeniali alla mia personale concezione dell'essere artista. Non solo perché fu parte della rivoluzione targata Velvet Underground, né per il lungo e nobile curriculum come produttore (Nico, Happy Mondays, Stooges, Patti Smith, Squeeze, Modern Lovers, Siouxsie & The Banshees), né per la sua capacità di disseminare album imprescindibili e rivoluzionari al pari del glorioso gruppo di provenienza, ma soprattutto per quel nobile distacco emotivo e creativo dalle regole del carrozzone critico internazionale che a ogni passo degli ex-pupilli di Andy Warhol si agitava in cerca della pietra filosofale della musica moderna, mentre Cale applicava molteplici dialettiche sperimentali alla forma-canzone.
La cosa buffa è che ancora una volta "Mercy" sarà oggetto di disamina da parte di una pletora di analisti del post-post-post-punk in preda al furore da tastiera di pc/smartphone, o di nostalgici che hanno sbucciato tante volte la mitica banana da averne dimenticato il profumo e il gusto.
Che Dio benedica John Cale per il solo fatto di esistere. Ancora mi rallegro e sorrido quando penso alla recensione di un rispettabile mensile italiano dell'album "Words For The Dying" (1989), e alla lunga lista di strumenti inesistenti citati, esempio lampante di un mestiere, quello di recensore, che prima o poi la rivoluzione tecnologica ha messo se non in crisi almeno in dubbio.
Non che abbia l'ardire di professarmi idoneo al gravoso compito di rendere comprensibili le notevoli qualità di "Mercy", credo anzi che leggerete argomentazioni ben più approfondite, ma quantomeno ho una sincera consapevolezza dell'enorme valore artistico degli oltre cinquant'anni di esternazioni creative dell'ex Velvet Underground (ancor prima discepolo alla corte di La Monte Young).
Ci sono voluti quattordici anni e nove dischi prima che Cale si cimentasse con album ordinari ("Caribbean Sunset" e "Artificial Intelligence"), e ben altri venti prima che il musicista gallese appendesse momentaneamente gli strumenti al chiodo, non prima di aver regalato due gioiellini ("Hobo Sapiens", "Black Acetate"). A onor del vero il terzo millennio è stato oggetto di una delle pagine più controverse della sua produzione, ovvero il poco riuscito approccio alla tecnologia applicata alla musica di "Shifty Adventures In Nookie Wood", lavoro che per certi versi appare propedeutico a "Mercy".
È evidente che pur avendo raggiunto la soglia degli ottant'anni, Cale resti un musicista attento alla musica contemporanea. Elettronica, hip-hop, r&b e funk si fondono in un apocalittico electro-soul che amalgama l'urban-pop-soul dei Blue Nile, il Bowie di "Station To Station" e "Blackstar", il transumanesimo di Tom Krell e il sontuoso rap di Kendrick Lamar, ma l'approccio è drastico, amaro, senza apparente via d'uscita.
Viene spontaneo associare all'ascolto di "Mercy" le immagini dell'ultimo film di David Cronenberg "Crimes Of The Future": i quasi sette minuti di "Marilyn Monroe's Legs (Beauty Elsewhere)" ne sono un vivido esempio. La staticità delle note, il dileguarsi di dolori e sentimento, la perfetta e algida messa in opera dell'architettura musicale hanno molto in comune con il caos futuristico dell'ultimo capolavoro cinematografico del regista canadese. Se per Cronenberg il distopico concetto di orrore e bellezza è custodito nel corpo, per Cale quest'idea è racchiusa nelle accezioni emozionali del suono.
Anche i vari ospiti sono funzionali a questo solenne rituale. La presenza di Weyes Blood in "Story Of Blood" affranca la melodia più ariosa, eterea e fantasiosa dell'album, un plot quasi disneyano dove manca l'eroe di turno. Anche l'abbraccio lirico più maestoso di "Time Stands Still" appare esangue, nonostante un groove soul regga le fila di un brano che più di altri rispetta lo stile compositivo di Cale.
Nessuna rivoluzione copernicana contrassegna "Mercy". Quantunque la sperimentazione resti alla base dell'intero progetto, il musicista gallese si avvale di una sezione archi per la più mitteleuropea e nostalgicamente sentimentale, come in "Moonstruck (Nico's Song)", invoca la complicità di Laurel Halo al fine di rendere più evanescenti i riflessi dei neon che illuminano la splendida ballata alla Paul Buchanan che dà il titolo all'album, ricorre all'ambigua seduzione degli Animal Collective nel psych-soul di "Everlasting Days" e all'eversivo depistaggio dei Fat White Family nell'ibrido funk/r&b di "The Legal Status Of Ice".
Tutto questo avviene senza acuti strumentali, più taglienti i testi (calotte polari e apocalisse ecologica, amicizie e paradossi, la fragilità della bellezza e la crisi culturale dell'Europa che pian piano sprofonda nel fango).
Le sonorità sono untuose, avvolte in confezioni avant-soul proiettate in un plumbeo futuro remoto, al pari delle migliori pagine di "Hats" dei Blue Nile ("Noise Of You", "Not The End Of The World") o del già citato Duca Bianco ("Night Crawling").
"Mercy" è l'album, forse l'ultimo, di un artista consapevole che tutto è stato detto e nulla è stato compreso. Gli oltre settanta minuti, distribuiti in dodici tracce, sono un testamento spirituale (al pari dell'ultimo Bowie o dell'ultimo Cohen), un improbabile ed estremo capolavoro nichilista che più che alla riflessione induce all'astrazione.
Addentrarsi in questo labirinto di denso minimalismo sonoro non è agevole. Anche il battito quasi dance di "I Know You're Happy" non tradisce emozioni viscerali, e mentre scorrono gli epici titoli di coda ("Out Your Window") è lecito chiedersi se la richiesta di misericordia del titolo non sia l'ennesima provocazione culturale di un musicista, che ha comunque contrassegnato l'intera storia della musica rock, restando abilmente lontano dai riflettori e dal meretricio artistico.
A voler citare una delle sue opere più pregevoli, si potrebbe quasi sottotitolare questo nuovo album Music For A No-Society.
01/02/2023