Vagare, lasciarsi trasportare alla deriva, senza intenzione, senza una meta predefinita: l'importante è muoversi, percepire la naturalezza, finanche la bellezza di questo movimento, ché in fondo non è nella stasi che si concretizza il nostro destino. Se poi si perde la cognizione del tempo, tanto meglio: chi ha stabilito che si debba per forza sottostare alla sua tirannia? Difficile immaginare quale sia l'idea alla base di “Drifting”, secondo album per la jazzista norvegese Mette Henriette, staccato di oltre sette anni dall'esordio. Non è detto d'altronde che vi sia un tema specifico secondo il quale organizzare le vignette del disco, ma è certo che nella curiosità cross-genere della sassofonista c'è uno slancio, un senso di moto, che anche a privarsi di baricentri tematici illustra bene la natura vagabonda di un'arte fluida, astratta da contesti specifici. Nuovamente edito per la benemerita Ecm, il lavoro espande la ricerca verso nuovi gradi espressivi.
In netta controtendenza rispetto al ricco organico sfruttato per il debutto (doppio-fiume di oltre 95 minuti), col nuovo progetto Henriette coordina un piccolo ensemble di tre musicisti: oltre al suo sassofono, figurano Johan Lindvall al pianoforte e Judith Hamann al violoncello, un trio strumentale sì inconsueto ma forte di un afflato cameristico perfettamente sincronizzato. Anche la durata poggia su tutt'altre premesse, prediligendo minutaggi ben più brevilinei, capaci di restituire impressioni vivide, palpabili. Soprattutto, quel che si evidenzia è l'attitudine di un suono che sì richiama l'estrazione jazz della musicista, ma ne rifugge i connotati, adoperandosi per situarsi in un non-luogo fatto di nitori classici, evasioni d'ambiente, spunti improvvisativi che fanno proprio il lascito del Third Stream.
Attacchi cameristici si dipanano come un treno sui binari, leggiadri giri di pianoforte ripetono un motivo ritmico su cui il sassofono tratteggia le sue fugaci ispirazioni (“I Villvind”). Terzine valzerate appena accennate suggeriscono una danza impalpabile, il risveglio di un'esistenza nell'atto di vagabondare (“Chassé”). Se la title track avanza ipotesi “spiritual” attraverso il fiorire del sassofono di Henriette (qui sopraggiunge anche l'anima esplorativa del connazionale Daniel Herskedal), “Oversoar” dirada ogni premessa melodica, il violoncello a farsi largo nella nebbia con la severità di una Hildur Guðnadóttir.
Ricordi parigini (le scintille alla Mammal Hands di “Rue de Renard”), nevose meditazioni da camera (“Indrifting You”), misteri che si manifestano col fare poetico di un Satie (“Ciedda, fas”): l'arte di Mette Henriette si pone al servizio di un linguaggio sì parco di componenti, ma sempre in movimento, capace di diventare tutt'uno col respiro della natura. Nel crepitare di sterpi al fuoco, nel lento affiorare della mezzaluna, il terzetto capitanato dalla norvegese si fa portavoce di un errare paziente, slegato da contingenze e urgenze, avvinto da un senso di contemplazione che invita solo alla calma. Non è necessario altro per restare rapiti.
(10/03/2023)