Unione, guarigione, conforto, incitamento: nata nella sua forma attuale dopo la Guerra di Giava, che vide i ribelli giavanesi schierarsi contro l'Impero Olandese e la corrotta aristocrazia che lo sosteneva, la danza jathilan (acronimo di una frase che per esteso si traduce come “cavallo che balla irregolarmente”) riassume in sé una straordinaria pletora di significati, si presta a numerose chiavi di lettura che trascendono il solo dato scenico. Sorge come rappresentazione di una vittoria immaginaria nei confronti del colonizzatore (la guerra volse in sconfitta per i ribelli) e i danzatori usano cavalli di bambù in ricordo dei cavalieri che per primi osarono opporsi al dominio europeo, mentre la musica d'accompagnamento (solitamente percussioni e angklung) si adopera nel favorire uno stato di trance, tale da restituire la forza perduta durante gli scontri.
La luce nella sconfitta, la rabbia dell'oppresso, il desiderio di rivalsa, l'eroismo, spesso e volentieri dai risvolti sovrannaturali: quanto offerto dalle rappresentazioni jathilan dà adito a un variegato riscontro emotivo. Tale ricchezza di risvolti trova perfetta corresponsione nell'elaborazione offerta da Yennu Ariendra, storico nome del sottobosco indipendente indonesiano, e Johanes Santoso Pribadi, le due menti pensanti dietro al nome Raja Kirik.
Le cornici industriali che già avevano contraddistinto il precedente “Rampokan” qui fungono da pretesto per un'esaltazione dell'ingente portato espressivo della danza jathilan, la condensazione di un universo artistico non tanto rinnovato, quanto piuttosto ri-esplorato, traslato di coordinate fino a scoprire lati di sé tenuti finora nascosti. In cinque atti che si susseguono a mo' di opera electro, il duo fa sfoggio di grande controllo e lucidità, distillando l'essenza concreta di una tradizione che non ha perso una stilla della sua incisività.
In quest'impresa i due non procedono da soli. Complice l'aspetto performativo, i Raja Kirik si avvalgono del supporto della cantante Silir Wangi e della danza di Ari Dwianto per presentare la propria elaborazione, consci del fatto che la sola musica non avrebbe potuto avere la stessa potenza. Certo, l'aspetto coreografico si perde all'ascolto, anche così il carattere che la voce applica ai brani lascia intendere meglio il forte portato espressivo, la carica narrativa del jathilan. Carica che emerge come un fiume in piena, che i due musicisti guidano, ma non contengono mai. Non sarebbe possibile d'altronde, in queste storie di gesta ed eroi l'impatto è di primaria importanza: attorno agli acuti melismi di Wangi i due musicisti montano un articolato teatro sonoro, inizialmente limitato a una teoria di fiati caserecci e rade scansioni percussive, ma che di minuto in minuto lascia filtrare con maggiore decisione la natura elettrica del tutto, fino a quando non si prende l'esclusiva. “Sigra Sigra” da sola esemplifica perfettamente l'affinamento compositivo dei due musicisti, il loro saper essere ottimi lettori della tradizione ma validarla a loro modo, imbastendo un fitto coro di ronzii e sciami industriali che attorno alla poderosa propulsione di base accentua il senso di trance.
Il nervosismo non scema di certo negli atti successivi, trova piuttosto nuove modalità per emergere, che si tratti di amplificare l'effetto drammatico della voce (le sincopi che accompagnano il recitativo di “Budhal gumuruh”, con risvolti prossimi al gamelan), o digitalizzare pesantemente i contributi dei fiati, in un crescendo massimalista dai tratti noise (“Perangan”).
La frenesia prosegue senza sosta, si fa maremoto di emozioni e conflitto vivo: “Slompret Slompret” è lotta all'ultimo colpo, le trombe del titolo chiamano allo scontro, si fanno anticipazione rabbiosa. Attorno al canto ogni occasione è buona per manipolare il suono, strisciare con piccoli rivoli sintetici prima che sopraggiunga un'autentica detonazione. Si arriva a “Waru doyong” con la forza di una clamorosa esaltazione, pronti a gustarsi l'atto solutore di una battaglia senza uguali. Sempre belligerante ma dotato di potentissimi stacchi ritmici che sottolineano gli accenti espressivi, giunge a conclusione di un'esperienza a cui sicuramente manca il lato visivo per essere gustata nella sua interezza, ma che intercetta la furia creativa di un duo al pieno del suo vigore, capace di muoversi nella storia di Giava con grandissima elasticità. Restare ipnotizzati è davvero un attimo.
11/12/2023