Calda è la voce, caldo è il culto che la circonda. Ci sono davvero pochi artisti come il londinese Sampha Lahai Sisay, al giorno d’oggi; un tipo introverso e un po’ impacciato, poco incline alla pubblicità oltre lo strettamente necessario per coadiuviare le immagini di contorno alla propria visione artistica. Ama anche prendersi pause, per non farsi soffocare dall’andirivieni dell’industria discografica e vivere la vita con calma, gustandosi ogni momento – non ultimo, l’arrivo della sua prima figlia appena tre anni fa.
Ma dev’essere proprio per via di questa natura così bonaria e rassicurante, unita a un talento inusitatamente cristallino, che Sampha finisce col trovarsi sempre nel mirino degli ascoltatori più attenti. Lungo un decennio abbondante di carriera, questo cantautore prestato alla causa della produzione elettronica è stato anche sballottato continuamente a giro sui dischi altrui, collezionando un’altisonante lista di collaborazioni con i nomi più gettonati del panorama anglofono soul/dance alternativo per così dire “di qualità”.
Quest’anno, sei concerti di riscaldamento in due sedute diverse, tenuti alla chiesa di St John In Hackney nell'est di Londra, sono andati immediatamente sold-out mesi prima dell’uscita del suo secondo album “Lahai”, dimostrando un seguito ancora affiatato nonostante i sei anni trascorsi dall’ultima pubblicazione solista, il debutto “Process”. Buona parte del tour a supporto del nuovo disco, previsto tra novembre e dicembre, sta già a corto di biglietti.
Lungi dal montarsi la testa, Sampha è quello di sempre; scolpisce i propri sentimenti seguendo una penna liricamente introspettiva ma cangiante nel suono, dove il folklore del vecchio soul si mescola a lucenti rifrazioni digitali, violini, percussioni e breakbeat. Una pasta metropolitana calda e poliforme, la riconoscibile firma di un cantautore tutto sommato classico nelle intenzioni, ma che attinge da radici diverse: il jazz, come forma primordiale di spiritualità, e l’elettronica, come linguaggio multi-uso per ricomporre le parti secondo il proprio presente storico. È così che le canzoni di “Lahai” suonano introverse e tenebrose ma estremamente ritmiche, grazie al gusto per la propulsione scandito non solo dal manto percussivo elettro-acustico ma anche dalla stessa voce, che spesso sillaba come una vecchia stazione radio Uk-garage. Pur attento al dettaglio e ricercato nella gamma timbrica, “Lahai” è coinvolgente come pochi altri lavori nell’attuale panorama.
L’apertura “Stereo Colour Cloud (Shaman’s Dream)”, e soprattutto il singolo “Spirit 2.0”, con Yussef Dayes alla batteria e un’idea vocale di Yaeji sul finale, sono esplicative di tale curioso savoir faire. E questo per tacere delle suggestive decostruzioni jump-blues di “Dancing Circles”, tutta progressioni ritmiche e ostinati al piano elettrico che picchiettano come pioggia su un tetto di metallo, e “Suspended”, al contempo elegiaca nelle intenzioni gospel e concitata nei risultati, con la voce che ansima e s’impenna per cavalcare un ritmo che non accenna a fermarsi. Interessante lo svolgimento di “Jonathan L. Seagull”, composta in studio assieme alla cantautrice Laura Groves e a Morgan Simpson, quest’ultimo batterista della chiacchierata outfit black midi.
Sulla balbuziente “Can’t Go Back”, reminescente di certe contorsioni alla James Blake, fan capolino le sorelle Ibeyi e Sheila Maurice-Grey, leader dei Kokoroko. Tra i momenti più immediatamente accattivanti, l’altro singolo “Only” e il duetto con Léa Sen “What If You Hypnotize Me?”, capaci di mescolare inserti di immediatezza melodica sopra strutture all’argento vivo.
Quando “Lahai” rallenta, i risultati sono comunque emotivi; “Inclination Compass (Tenderness)” ci mostra l’autore nella sua veste più intima, quel timbro vocale così pastoso e imbronciato riempie lo spazio con pochi tratti, “Evidence” invece svolazza tra le note del pentagramma come un valzer d’antan, ancora una volta decostruendo con gusto elettronico quello che sarebbe altrimenti parso un bozzetto quasi neoclassico.
Un ascolto certo di settore, dedicato a quel pubblico prescelto dai gusti un po’ selettivi che ama seguire le continue evoluzioni del cantautorato elettronico in forma libera e scevra dei soliti stereotipi - alla co-produzione accanto a Sampha su grosso dei brani, non a caso, trova posto lo spagnolo El Guincho, noto per un gusto particolarmente hyper ma sempre legato a una forma di folklore tradizionale.
L’ascolto si conclude – o per meglio dire, si interrompe – con “Rose Tint”, altra sinuosa produzione pianistica avvolta da beat e squame digitali, che lascia l’ascoltatore appeso all’amo sino all’ultima nota in levare: Sampha esce di scena così com’era entrato, possente eppure mai invadente, l’anti-divo del soul elettronico che steccati non ha. Che tipo.
23/10/2023